I
Come
andò che Maestro Ciliegia, falegname,
trovò un
pezzo di legno, che piangeva e rideva come un bambino.
— C’era una volta...
— Un re! — diranno subito i miei
piccoli lettori.
— No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una
volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo
da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per
accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel
giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il
quale aveva nome Mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro
Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza,
come una ciliegia matura.
Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di
legno, si rallegrò tutto; e dandosi una fregatina di mani per la contentezza,
borbottò a mezza voce:
— Questo legno è capitato a tempo; voglio
servirmene per fare una gamba di tavolino. —
Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per
cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo; ma quando fu lí per lasciare
andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentí una
vocina sottile sottile, che disse raccomandandosi:
— Non mi picchiar tanto forte! —
Figuratevi come rimase quel buon vecchio di
maestro Ciliegia!
Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per
vedere di dove mai poteva essere uscita quella vocina, e non vide nessuno!
Guardò sotto il banco, e nessuno; guardò dentro un armadio che stava sempre
chiuso, e nessuno; guardò nel corbello dei trucioli e della segatura, e
nessuno; aprí l’uscio di bottega per dare un’occhiata anche sulla strada, e
nessuno. O dunque?...
— Ho capito; — disse allora
ridendo e grattandosi la parrucca — si vede che quella vocina me la
son figurata io. Rimettiamoci a lavorare. —
E ripresa l’ascia in mano, tirò giú un
solennissimo colpo sul pezzo di legno.
— Ohi! tu m’hai fatto
male! — gridò rammaricandosi la solita vocina.
Questa volta maestro Ciliegia restò di stucco,
cogli occhi fuori del capo per la paura, colla bocca spalancata e colla lingua
giú ciondoloni fino al mento, come un mascherone da fontana.
Appena riebbe l’uso della parola, cominciò a dire
tremando e balbettando dallo spavento:
— Ma di dove sarà uscita questa vocina che
ha detto ohi?... Eppure qui non c’è anima viva. Che sia per caso questo pezzo
di legno che abbia imparato a piangere e a lamentarsi come un bambino? Io non
lo posso credere. Questo legno eccolo qui; è un pezzo di legno da caminetto,
come tutti gli altri, e a buttarlo sul fuoco, c’è da far bollire una pentola di
fagioli... O dunque? Che ci sia nascosto dentro qualcuno? Se c’è nascosto
qualcuno, tanto peggio per lui. Ora l’accomodo io! —
E cosí dicendo, agguantò con tutte e due le mani
quel povero pezzo di legno, e si pose a sbatacchiarlo senza carità contro le
pareti della stanza.
Poi si messe in ascolto, per sentire se c’era
qualche vocina che si lamentasse. Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e
nulla; dieci minuti, e nulla!
— Ho capito; — disse allora
sforzandosi di ridere e arruffandosi la parrucca — si vede che quella
vocina che ha detto ohi, me la son figurata io! Rimettiamoci a lavorare. —
E perché gli era entrata addosso una gran paura,
si provò a canterellare per farsi un po’ di coraggio.
Intanto, posata da una parte l’ascia, prese in
mano la pialla, per piallare e tirare a pulimento il pezzo di legno; ma nel
mentre che lo piallava in su e in giú, sentí la solita vocina che gli disse
ridendo:
— Smetti! tu mi fai il pizzicorino sul
corpo! —
Questa volta il povero maestro Ciliegia cadde giú
come fulminato. Quando riaprí gli occhi, si trovò seduto per terra.
Il suo viso pareva trasfigurito, e perfino la
punta del naso, di paonazza come era quasi sempre, gli era diventata turchina
dalla gran paura.
II
Maestro
Ciliegia regala il pezzo di legno al suo amico Geppetto,
il quale
lo prende per fabbricarsi un burattino maraviglioso,
che
sappia ballare, tirar di scherma e fare i salti mortali.
In quel punto fu bussato alla porta.
— Passate pure, — disse il falegname,
senza aver la forza di rizzarsi in piedi.
Allora entrò in bottega un vecchietto tutto
arzillo, il quale aveva nome Geppetto; ma i ragazzi del vicinato, quando lo
volevano far montare su tutte le furie, lo chiamavano col soprannome di
Polendina, a motivo della sua parrucca gialla, che somigliava moltissimo alla
polendina di granturco.
Geppetto era bizzosissimo. Guai a chiamarlo
Polendina! Diventava subito una bestia, e non c’era piú verso di tenerlo.
— Buon giorno,
mastr’Antonio, — disse Geppetto. — Che cosa fate costí per
terra?
— Insegno l’abbaco alle formicole.
— Buon pro vi faccia.
— Chi vi ha portato da me, compar Geppetto?
— Le gambe. Sappiate, mastr’Antonio, che son
venuto da voi, per chiedervi un favore.
— Eccomi qui, pronto a
servirvi, — replicò il falegname, rizzandosi su i ginocchi.
— Stamani m’è piovuta nel cervello un’idea.
— Sentiamola.
— Ho pensato di fabbricarmi da me un bel
burattino di legno: ma un burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirare di
scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo,
per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino: che ve ne pare?
— Bravo Polendina! — gridò la
solita vocina, che non si capiva di dove uscisse.
A sentirsi chiamar Polendina, compar Geppetto
diventò rosso come un peperone dalla bizza, e voltandosi verso il falegname,
gli disse imbestialito:
— Perché mi offendete?
— Chi vi offende?
— Mi avete detto Polendina!...
— Non sono stato io.
— Sta’ un po’ a vedere che sarò stato io! Io
dico che siete stato voi.
— No!
— Sí!
— No!
— Sí! —
E riscaldandosi sempre piú, vennero dalle parole
ai fatti, e acciuffatisi fra di loro, si graffiarono, si morsero e si
sbertucciarono.
Finito il combattimento, mastr’Antonio si trovò fra
le mani la parrucca gialla di Geppetto, e Geppetto si accòrse di avere in bocca
la parrucca brizzolata del falegname.
— Rendimi la mia parrucca! — gridò
mastr’Antonio.
— E tu rendimi la mia, e rifacciamo la
pace. —
I due vecchietti, dopo aver ripreso ognuno di
loro la propria parrucca, si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni
amici per tutta la vita.
— Dunque, compar Geppetto, — disse
il falegname in segno di pace fatta — qual è il piacere che volete da
me?
— Vorrei un po’ di legno per fabbricare il
mio burattino; me lo date? —
Mastr’Antonio, tutto contento, andò subito a
prendere sul banco quel pezzo di legno che era stato cagione a lui di tante
paure. Ma quando fu lí per consegnarlo all’amico, il pezzo di legno dètte uno
scossone e sgusciandogli violentemente dalle mani, andò a battere con forza
negli stinchi impresciuttiti del povero Geppetto.
— Ah! gli è con questo bel garbo,
mastr’Antonio, che voi regalate la vostra roba? M’avete quasi azzoppito!...
— Vi giuro che non sono stato io!
— Allora sarò stato io!...
— La colpa è tutta di questo legno...
— Lo so che è del legno: ma siete voi che me
l’avete tirato nelle gambe!
— Io non ve l’ho tirato!
— Bugiardo!
— Geppetto non mi offendete; se no vi chiamo
Polendina!...
— Asino!
— Polendina!
— Somaro!
— Polendina!
— Brutto scimmiotto!
— Polendina! —
A sentirsi chiamar Polendina per la terza volta,
Geppetto perse il lume degli occhi, si avventò sul falegname, e lí se ne
dettero un sacco e una sporta.
A battaglia finita, mastr’Antonio si trovò due
graffi di piú sul naso, e quell’altro due bottoni di meno al giubbetto.
Pareggiati in questo modo i loro conti, si strinsero la mano e giurarono di
rimanere buoni amici per tutta la vita.
Intanto Geppetto prese con se il suo bravo pezzo
di legno, e ringraziato mastr’Antonio, se ne tornò zoppicando a casa.
III
Geppetto,
tornato a casa, comincia subito a fabbricarsi il burattino
e gli
mette il nome di Pinocchio. Prime monellerie del burattino.
La casa di Geppetto era una stanzina terrena, che
pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere piú semplice: una
seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato. Nella
parete di fondo si vedeva un caminetto col fuoco acceso; ma il fuoco era
dipinto, e accanto al fuoco c’era dipinta una pentola che bolliva allegramente
e mandava fuori una nuvola di fumo, che pareva fumo davvero.
Appena entrato in casa, Geppetto prese subito gli
arnesi e si pose a intagliare e a fabbricare il suo burattino.
— Che nome gli metterò? — disse fra sé e sé.
— Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto
una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e
Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il piú ricco di loro chiedeva
l’elemosina. —
Quando ebbe trovato il nome al suo burattino,
allora cominciò a lavorare a buono, e gli fece subito i capelli, poi la fronte,
poi gli occhi.
Fatti gli occhi, figuratevi la sua maraviglia
quando si accòrse che gli occhi si movevano e che lo guardavano fisso fisso.
Geppetto, vedendosi guardare da quei due occhi di
legno, se n’ebbe quasi per male, e disse con accento risentito:
— Occhiacci di legno, perché mi
guardate? —
Nessuno rispose.
Allora, dopo gli occhi, gli fece il naso; ma il
naso, appena fatto, cominciò a crescere: e cresci, cresci, cresci, diventò in
pochi minuti un nasone che non finiva mai.
Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo;
ma piú lo ritagliava e lo scorciva, e piú quel naso impertinente diventava
lungo.
Dopo il naso gli fece la bocca.
La bocca non era ancora finita di fare, che
cominciò subito a ridere e a canzonarlo.
— Smetti di ridere! — disse Geppetto
impermalito; ma fu come dire al muro.
— Smetti di ridere, ti ripeto! — urlò con
voce minacciosa.
Allora la bocca smesse di ridere, ma cacciò fuori
tutta la lingua.
Geppetto, per non guastare i fatti suoi, finse di
non avvedersene, e continuò a lavorare. Dopo la bocca, gli fece il mento, poi
il collo, poi le spalle, lo stomaco, le braccia e le mani.
Appena finite le mani, Geppetto sentí portarsi
via la parrucca dal capo. Si voltò in su e che cosa vide? Vide la sua parrucca
gialla in mano del burattino.
— Pinocchio!... rendimi subito la mia
parrucca! —
E Pinocchio, invece di rendergli la parrucca, se
la messe in capo per sé, rimanendovi sotto mezzo affogato.
A quel garbo insolente e derisorio, Geppetto si
fece tristo e melanconico, come non era stato mai in vita sua: e voltandosi
verso Pinocchio, gli disse:
— Birba d’un figliuolo! Non sei ancora
finito di fare, e già cominci a mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo
mio, male! —
E si rasciugò una lacrima.
Restavano sempre da fare le gambe e i piedi.
Quando Geppetto ebbe finito di fargli i piedi,
sentí arrivarsi un calcio sulla punta del naso.
— Me lo merito! — disse allora fra sé. —
Dovevo pensarci prima! Oramai è tardi! —
Poi prese il burattino sotto le braccia e lo posò
in terra, sul pavimento della stanza, per farlo camminare.
Pinocchio aveva le gambe aggranchite e non sapeva
muoversi, e Geppetto lo conduceva per la mano per insegnargli a mettere un
passo dietro l’altro.
Quando le gambe gli si furono sgranchite,
Pinocchio cominciò a camminare da sé e a correre per la stanza; finché,
infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dètte a scappare.
E il povero Geppetto a corrergli dietro senza
poterlo raggiungere, perché quel birichino di Pinocchio andava a salti come una
lepre, e battendo i suoi piedi di legno sul lastrico della strada, faceva un
fracasso, come venti paia di zoccoli da contadini.
— Piglialo! piglialo! — urlava Geppetto; ma
la gente che era per la via, vedendo questo burattino di legno, che correva
come un barbero, si fermava incantata a guardarlo, e rideva, rideva e rideva,
da non poterselo figurare.
Alla fine, e per buona fortuna, capitò un
carabiniere il quale, sentendo tutto quello schiamazzo, e credendo si trattasse
di un puledro che avesse levata la mano al padrone, si piantò coraggiosamente a
gambe larghe in mezzo alla strada, coll’animo risoluto di fermarlo e d’impedire
il caso di maggiori disgrazie.
Ma Pinocchio, quando si avvide da lontano del
carabiniere, che barricava tutta la strada, s’ingegnò di passargli, per
sorpresa, framezzo alle gambe, e invece fece fiasco.
Il carabiniere, senza punto smuoversi, lo
acciuffò pulitamente per il naso (era un nasone spropositato, che pareva fatto
apposta per essere acchiappato dai carabinieri), e lo riconsegnò nelle proprie
mani di Geppetto; il quale, a titolo di correzione, voleva dargli subito una
buona tiratina d’orecchi. Ma figuratevi come rimase quando, nel cercargli gli
orecchi, non gli riuscí di poterli trovare: e sapete perché? perché, nella
furia di scolpirlo, si era dimenticato di farglieli.
Allora lo prese per la collottola, e, mentre lo
riconduceva indietro, gli disse tentennando minacciosamente il capo:
— Andiamo subito a casa. Quando saremo a
casa, non dubitare che faremo i nostri conti! —
Pinocchio, a questa antifona, si buttò per terra,
e non volle piú camminare. Intanto i curiosi e i bighelloni principiavano a
fermarsi lí dintorno e a far capannello.
Chi ne diceva una, chi un’altra.
— Povero burattino! — dicevano alcuni — ha
ragione a non voler tornare a casa! Chi lo sa come lo picchierebbe
quell’omaccio di Geppetto!... —
E gli altri soggiungevano malignamente:
— Quel Geppetto pare un galantuomo! ma è un
vero tiranno coi ragazzi! Se gli lasciano quel povero burattino fra le mani, è
capacissimo di farlo a pezzi!... —
Insomma, tanto dissero e tanto fecero, che il
carabiniere rimesse in libertà Pinocchio, e condusse in prigione quel
pover’uomo di Geppetto. Il quale, non avendo parole lí per lí per difendersi,
piangeva come un vitellino, e nell’avviarsi verso il carcere, balbettava
singhiozzando:
— Sciagurato figliuolo! E pensare che ho
penato tanto a farlo un burattino per bene! Ma mi sta il dovere! Dovevo
pensarci prima!...
Quello che accadde dopo, è una storia cosí strana
da non potersi quasi credere, e ve la racconterò in quest’altri capitoli.
IV
La
storia di Pinocchio col Grillo-parlante, dove si vede come i ragazzi cattivi
hanno a noja di sentirsi correggere da chi ne sa piú di loro.
Vi dirò dunque, ragazzi, che mentre il povero
Geppetto era condotto senza sua colpa in prigione, quel monello di Pinocchio, rimasto
libero dalle grinfie del carabiniere, se la dava a gambe giú attraverso ai
campi, per far piú presto a tornarsene a casa; e nella gran furia del correre
saltava greppi altissimi, siepi di pruni e fossi pieni d’acqua, tale e quale
come avrebbe potuto fare un capretto o un leprottino inseguito dai cacciatori.
Giunto dinanzi a casa, trovò l’uscio di strada
socchiuso. Lo spinse, entrò dentro, e appena ebbe messo tanto di paletto, si
gettò a sedere per terra, lasciando andare un gran sospirone di contentezza.
Ma quella contentezza durò poco, perché sentí
nella stanza qualcuno che fece:
— Crí-crí-crí!
— Chi è che mi chiama? — disse Pinocchio
tutto impaurito.
— Sono io! —
Pinocchio si voltò, e vide un grosso grillo che
saliva lentamente su su per il muro.
— Dimmi, Grillo, e tu chi sei?
— Io sono il Grillo-parlante, e abito in
questa stanza da piú di cent’anni.
— Oggi però questa stanza è mia — disse il
burattino — e se vuoi farmi un vero piacere, vattene subito, senza nemmeno
voltarti indietro.
— Io non me ne anderò di qui, — rispose il
Grillo — se prima non ti avrò detto una gran verità.
— Dimmela e spicciati.
— Guai a quei ragazzi che si ribellano ai
loro genitori, e che abbandonano capricciosamente la casa paterna. Non avranno
mai bene in questo mondo; e prima o poi dovranno pentirsene amaramente.
— Canta pure, Grillo mio, come ti pare e
piace: ma io so che domani, all’alba, voglio andarmene di qui, perché se
rimango qui, avverrà a me quel che avviene a tutti gli altri ragazzi, vale a
dire mi manderanno a scuola, e per amore o per forza mi toccherà a studiare; e
io, a dirtela in confidenza, di studiare non ne ho punto voglia, e mi diverto
piú a correre dietro alle farfalle e a salire su per gli alberi a prendere gli
uccellini di nido.
— Povero grullerello! Ma non sai che,
facendo cosí, diventerai da grande un bellissimo somaro, e che tutti si
piglieranno gioco di te?
— Chetati, Grillaccio del mal’augurio! —
gridò Pinocchio.
Ma il Grillo, che era paziente e filosofo, invece
di aversi a male di questa impertinenza, continuò con lo stesso tono di voce:
— E se non ti garba di andare a scuola,
perché non impari almeno un mestiere, tanto da guadagnarti onestamente un pezzo
di pane?
— Vuoi che te lo dica? — replicò Pinocchio,
che cominciava a perdere la pazienza. — Fra i mestieri del mondo non ce n’è che
uno solo che veramente mi vada a genio.
— E questo mestiere sarebbe?
— Quello di mangiare, bere, dormire,
divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo.
— Per tua regola — disse il Grillo-parlante
con la sua solita calma — tutti quelli che fanno codesto mestiere, finiscono
quasi sempre allo spedale o in prigione.
— Bada, Grillaccio del mal’augurio!... se mi
monta la bizza, guai a te!...
— Povero Pinocchio! mi fai proprio
compassione!...
— Perché ti faccio compassione?
— Perché sei un burattino e, quel che è
peggio, perché hai la testa di legno. —
A queste ultime parole, Pinocchio saltò su
tutt’infuriato e preso di sul banco un martello di legno, lo scagliò contro il
Grillo-parlante.
Forse non credeva nemmeno di colpirlo; ma
disgraziatamente lo colse per l’appunto nel capo, tanto che il povero Grillo
ebbe appena il fiato di fare crí-crí-crí, e poi rimase lí stecchito e
appiccicato alla parete.
V
Pinocchio
ha fame e cerca un uovo per farsi una frittata;
ma sul
piú bello, la frittata gli vola via dalla finestra.
Intanto cominciò a farsi notte, e Pinocchio,
ricordandosi che non aveva mangiato nulla, sentí un’uggiolina allo stomaco, che
somigliava moltissimo all’appetito.
Ma l’appetito nei ragazzi cammina presto, e di
fatti, dopo pochi minuti, l’appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al non
vedere, si convertí in una fame da lupi, in una fame da tagliarsi col coltello.
Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove
c’era una pentola che bolliva, e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che
cosa ci fosse dentro: ma la pentola era dipinta sul muro. Immaginatevi come
restò. Il suo naso, che era già lungo, gli diventò piú lungo almeno quattro
dita.
Allora si dètte a correre per la stanza e a
frugare per tutte le cassette e per tutti i ripostigli in cerca di un po’ di
pane, magari un po’ di pan secco, un crosterello, un osso avanzato al cane, un
po’ di polenta muffita, una lisca di pesce, un nocciolo di ciliegia, insomma
qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla.
E intanto la fame cresceva, e cresceva sempre: e
il povero Pinocchio non aveva altro sollievo che quello di sbadigliare, e
faceva degli sbadigli cosí lunghi, che qualche volta la bocca gli arrivava fino
agli orecchi. E dopo avere sbadigliato, sputava, e sentiva che lo stomaco gli
andava via.
Allora piangendo e disperandosi, diceva:
— Il Grillo-parlante aveva ragione. Ho fatto
male a rivoltarmi al mio babbo e a fuggire di casa... Se il mio babbo fosse
qui, ora non mi troverei a morire di sbadigli! Oh! che brutta malattia che è la
fame! —
Quand’ecco che gli parve di vedere nel monte
della spazzatura qualche cosa di tondo e di bianco, che somigliava tutto a un
uovo di gallina. Spiccare un salto e gettarvisi sopra, fu un punto solo. Era un
uovo davvero.
La gioia del burattino è impossibile descriverla:
bisogna sapersela figurare. Credendo quasi che fosse un sogno, si rigirava
quest’uovo fra le mani, e lo toccava e lo baciava, e baciandolo diceva:
— E ora come dovrò cuocerlo? Ne farò una
frittata!... No, è meglio cuocerlo nel piatto!... O non sarebbe piú saporito se
lo friggessi in padella? O se invece lo cuocessi a uso uovo a bere? No, la piú
lesta di tutte è di cuocerlo nel piatto o nel tegamino: ho troppo voglia di
mangiarmelo! —
Detto fatto, pose un tegamino sopra un caldano
pieno di brace accesa: messe nel tegamino, invece d’olio o di burro, un po’
d’acqua: e quando l’acqua principiò a fumare, tac!... spezzò il guscio
dell’uovo, e fece l’atto di scodellarvelo dentro.
Ma invece della chiara e del torlo scappò fuori
un pulcino tutto allegro e complimentoso, il quale facendo una bella riverenza
disse:
— Mille grazie, signor Pinocchio, d’avermi
risparmiata la fatica di rompere il guscio! Arrivedella, stia bene e tanti
saluti a casa! —
Ciò detto, distese le ali, e, infilata la
finestra che era aperta, se ne volò via a perdita d’occhio.
Il povero burattino rimase lí, come incantato,
cogli occhi fissi, colla bocca aperta e coi gusci dell’uovo in mano. Riavutosi,
peraltro, dal primo sbigottimento, cominciò a piangere, a strillare, a battere
i piedi in terra per la disperazione, e piangendo diceva:
— Eppure il Grillo-parlante aveva ragione!
Se non fossi scappato di casa e se il mio babbo fosse qui, ora non mi troverei
a morire di fame! Oh! che brutta malattia che è la fame!... —
E perché il corpo gli seguitava a brontolare piú
che mai, e non sapeva come fare a chetarlo, pensò di uscir di casa e di dare
una scappata al paesello vicino, nella speranza di trovare qualche persona
caritatevole, che gli facesse l’elemosina di un po’ di pane.
VI
Pinocchio
si addormenta coi piedi sul caldano,
e la
mattina dopo si sveglia coi piedi tutti bruciati.
Per l’appunto era una nottataccia d’inferno.
Tonava forte forte, lampeggiava come se il cielo pigliasse fuoco, e un
ventaccio freddo e strapazzone, fischiando rabbiosamente e sollevando un
immenso nuvolo di polvere, faceva stridere e cigolare tutti gli alberi della
campagna.
Pinocchio aveva una gran paura dei tuoni e dei
lampi: se non che la fame era piú forte della paura: motivo per cui accostò
l’uscio di casa, e presa la carriera, in un centinaio di salti arrivò fino al
paese, colla lingua fuori e col fiato grosso, come un cane da caccia.
Ma trovò tutto buio e tutto deserto. Le botteghe
erano chiuse; le porte di casa chiuse; le finestre chiuse, e nella strada
nemmeno un cane. Pareva il paese dei morti.
Allora Pinocchio, preso dalla disperazione e
dalla fame, si attaccò al campanello d’una casa, e cominciò a sonare a distesa,
dicendo dentro di sé:
— Qualcuno si affaccerà. —
Difatti si affacciò un vecchino, col berretto da
notte in capo, il quale gridò tutto stizzito:
— Che cosa volete a quest’ora?
— Che mi fareste il piacere di darmi un po’
di pane?
— Aspettami costí che torno subito, —
rispose il vecchino, credendo di avere da fare con qualcuno di quei ragazzacci
rompicolli che si divertono di notte a sonare i campanelli delle case, per
molestare la gente per bene, che se la dorme tranquillamente.
Dopo mezzo minuto la finestra si riaprí, e la
voce del solito vecchino gridò a Pinocchio:
— Fatti sotto e para il cappello. —
Pinocchio si levò subito il suo cappelluccio; ma
mentre faceva l’atto di pararlo, sentí pioversi addosso un’enorme catinellata
d’acqua che lo annaffiò tutto dalla testa ai piedi, come se fosse un vaso di
giranio appassito.
Tornò a casa bagnato come un pulcino e rifinito
dalla stanchezza e dalla fame: e perché non aveva piú forza da reggersi ritto,
si pose a sedere, appoggiando i piedi fradici e impillaccherati sopra un
caldano pieno di brace accesa.
E lí si addormentò; e nel dormire, i piedi che
erano di legno gli presero fuoco, e adagio adagio gli si carbonizzarono e
diventarono cenere.
E Pinocchio seguitava a dormire e a russare, come
se i suoi piedi fossero quelli d’un altro. Finalmente sul far del giorno si
svegliò, perché qualcuno aveva bussato alla porta.
— Chi è? — domandò sbadigliando e
stropicciandosi gli occhi.
— Sono io! — rispose una voce.
Quella voce era la voce di Geppetto.
VII
Geppetto
torna a casa, e dà al burattino la colazione
che il
pover’uomo aveva portata per sé.
Il povero Pinocchio, che aveva sempre gli occhi
fra il sonno, non s’era ancora avvisto dei piedi che gli si erano tutti
bruciati: per cui appena sentí la voce di suo padre, schizzò giú dallo sgabello
per correre a tirare il paletto; ma invece, dopo due o tre traballoni, cadde di
picchio tutto lungo disteso sul pavimento.
E nel battere in terra fece lo stesso rumore, che
avrebbe fatto un sacco di mestoli, cascato da un quinto piano.
— Aprimi! — intanto gridava Geppetto dalla
strada.
— Babbo mio, non posso — rispondeva il
burattino piangendo e ruzzolandosi per terra.
— Perché non puoi?
— Perché mi hanno mangiato i piedi.
— E chi te li ha mangiati?
— Il gatto — disse Pinocchio, vedendo il
gatto che colle zampine davanti si divertiva a far ballare alcuni trucioli di
legno.
— Aprimi, ti dico! — ripeté Geppetto — se
no, quando vengo in casa, il gatto te lo do io!
— Non posso star ritto, credetelo. Oh!
povero me! povero me, che mi toccherà a camminare coi ginocchi per tutta la
vita!... —
Geppetto, credendo che tutti questi piagnistei
fossero un’altra monelleria del burattino, pensò bene di farla finita, e
arrampicatosi su per il muro, entrò in casa dalla finestra.
Da principio voleva dire e voleva fare; ma poi,
quando vide il suo Pinocchio sdraiato in terra e rimasto senza piedi davvero,
allora sentí intenerirsi; e presolo subito in collo, si dètte a baciarlo e a
fargli mille carezze e mille moine, e, coi luccioloni che gli cascavano giú per
le gote, gli disse singhiozzando:
— Pinocchiuccio mio! Com’è che ti sei
bruciato i piedi?
— Non lo so, babbo, ma credetelo che è stata
una nottata d’inferno e me ne ricorderò fin che campo. Tonava, balenava e io avevo
una gran fame, e allora il Grillo-parlante mi disse: «Ti sta bene: sei stato
cattivo, e te lo meriti» e io gli dissi: «Bada, Grillo!...» e lui mi disse: «Tu
sei un burattino e hai la testa di legno» e io gli tirai un manico di martello,
e lui morí, ma la colpa fu sua, perché io non volevo ammazzarlo, prova ne sia
che messi un tegamino sulla brace accesa del caldano, ma il pulcino scappò
fuori e disse: «Arrivedella... e tanti saluti a casa». E la fame cresceva
sempre, motivo per cui quel vecchino col berretto da notte, affacciandosi alla
finestra mi disse: «Fatti sotto e para il cappello» e io con quella catinellata
d’acqua sul capo, perché il chiedere un po’ di pane non è vergogna, non è vero?
me ne tornai subito a casa, e perché avevo sempre una gran fame, messi i piedi
sul caldano per rasciugarmi, e voi siete tornato, e me li sono trovati
bruciati, e intanto la fame l’ho sempre e i piedi non li ho piú! ih!... ih!... ih!...
ih!... —
E il povero Pinocchio cominciò a piangere e a
berciare cosí forte, che lo sentivano da cinque chilometri lontano.
Geppetto, che di tutto quel discorso arruffato
aveva capito una sola cosa, cioè che il burattino sentiva morirsi dalla gran
fame, tirò fuori di tasca tre pere, e porgendogliele, disse:
— Queste tre pere erano la mia colazione: ma
io te le do volentieri. Mangiale, e buon pro ti faccia.
— Se volete che le mangi, fatemi il piacere
di sbucciarle.
— Sbucciarle? — replicò Geppetto
meravigliato. — Non avrei mai creduto, ragazzo mio, che tu fossi cosí boccuccia
e cosí schizzinoso di palato. Male! In questo mondo, fin da bambini, bisogna
avvezzarsi abboccati e a saper mangiar di tutto, perché non si sa mai quel che
ci può capitare. I casi son tanti!...
— Voi direte bene — soggiunse Pinocchio — ma
io non mangerò mai una frutta, che non sia sbucciata. Le bucce non le posso
soffrire. —
E quel buon uomo di Geppetto, cavato fuori un
coltellino, e armatosi di santa pazienza, sbucciò le tre pere, e pose tutte le
bucce sopra un angolo della tavola.
Quando Pinocchio in due bocconi ebbe mangiata la
prima pera, fece l’atto di buttar via il torsolo: ma Geppetto gli trattenne il
braccio, dicendogli:
— Non lo buttar via: tutto in questo mondo
può far comodo.
— Ma io il torsolo non lo mangio davvero!...
— gridò il burattino, rivoltandosi come una vipera.
— Chi lo sa! I casi son tanti!... — ripeté
Geppetto, senza riscaldarsi.
Fatto sta che i tre torsoli, invece di esser
gettati fuori dalla finestra, vennero posati sull’angolo della tavola in
compagnia delle bucce.
Mangiate o, per dir meglio, divorate le tre pere,
Pinocchio fece un lunghissimo sbadiglio e disse piagnucolando:
— Ho dell’altra fame!
— Ma io, ragazzo mio, non ho piú nulla da
darti.
— Proprio nulla, nulla?
— Ci avrei soltanto queste bucce e questi
torsoli di pera.
— Pazienza! — disse Pinocchio, — se non c’è
altro, mangerò una buccia. —
E cominciò a masticare. Da principio storse un
po’ la bocca: ma poi una dietro l’altra, spolverò in un soffio tutte le bucce:
e dopo le bucce anche i torsoli, e quand’ebbe finito di mangiare ogni cosa, si
batté tutto contento le mani sul corpo, e disse gongolando:
— Ora sí che sto bene!
— Vedi dunque — osservò Geppetto — che avevo
ragione io quando ti dicevo che non bisogna avvezzarsi né troppo sofistici né
troppo delicati di palato. Caro mio, non si sa mai quel che ci può capitare in
questo mondo. I casi son tanti!!... —
VIII
Geppetto
rifà i piedi a Pinocchio, e vende la propria casacca
per
comprargli l’Abbecedario.
Il burattino, appena che si fu levata la fame,
cominciò subito a bofonchiare e a piangere, perché voleva un paio di piedi
nuovi.
Ma Geppetto, per punirlo della monelleria fatta,
lo lasciò piangere e disperarsi per una mezza giornata: poi gli disse:
— E perché dovrei rifarti i piedi? Forse per
vederti scappar di nuovo da casa tua?
— Vi prometto — disse il burattino
singhiozzando — che da oggi in poi sarò buono...
— Tutti i ragazzi — replicò Geppetto —
quando vogliono ottenere qualcosa, dicono cosí.
— Vi prometto che anderò a scuola, studierò
e mi farò onore...
— Tutti i ragazzi, quando vogliono ottenere
qualcosa, ripetono la medesima storia.
— Ma io non sono come gli altri ragazzi! Io
sono piú buono di tutti, e dico sempre la verità. Vi prometto, babbo, che
imparerò un’arte, e che sarò la consolazione e il bastone della vostra vecchiaia. —
Geppetto che, sebbene facesse il viso di tiranno,
aveva gli occhi pieni di pianto e il cuore grosso dalla passione nel vedere il
suo povero Pinocchio in quello stato compassionevole, non rispose altre parole:
ma, presi in mano gli arnesi del mestiere e due pezzetti di legno stagionato,
si pose a lavorare di grandissimo impegno.
E in meno d’un’ora, i piedi erano bell’e fatti:
due piedini svelti, asciutti e nervosi, come se fossero modellati da un artista
di genio.
Allora Geppetto disse al burattino:
— Chiudi gli occhi e dormi! —
E Pinocchio chiuse gli occhi e fece finta di
dormire. E nel tempo che si fingeva addormentato, Geppetto con un po’ di colla
sciolta in un guscio d’uovo gli appiccicò i due piedi al loro posto, e glieli
appiccicò cosí bene, che non si vedeva nemmeno il segno dell’attaccatura.
Appena il burattino si accòrse di avere i piedi,
saltò giú dalla tavola dove stava disteso, e principiò a fare mille sgambetti e
mille capriòle, come se fosse ammattito dalla gran contentezza.
— Per ricompensarvi di quanto avete fatto
per me — disse Pinocchio al suo babbo — voglio subito andare a scuola.
— Bravo ragazzo.
— Ma per andare a scuola ho bisogno d’un po’
di vestito. —
Geppetto, che era povero e non aveva in tasca
nemmeno un centesimo, gli fece allora un vestituccio di carta fiorita, un paio
di scarpe di scorza d’albero e un berrettino di midolla di pane.
Pinocchio corse subito a specchiarsi in una
catinella piena d’acqua e rimase cosí contento di sé, che disse
pavoneggiandosi:
— Paio proprio un signore!
— Davvero, — replicò Geppetto — perché,
tienlo a mente, non è il vestito bello che fa il signore, ma è piuttosto il
vestito pulito.
— A proposito, — soggiunse il burattino —
per andare alla scuola mi manca sempre qualcosa: anzi mi manca il piú e il meglio.
— Cioè?
— Mi manca l’Abbecedario.
— Hai ragione: ma come si fa per averlo?
— È facilissimo: si va da un libraio e si
compra.
— E i quattrini?
— Io non ce l’ho.
— Nemmeno io — soggiunse il buon vecchio,
facendosi tristo.
E Pinocchio, sebbene fosse un ragazzo
allegrissimo, si fece tristo anche lui: perché la miseria, quando è miseria
davvero, la intendono tutti: anche i ragazzi.
— Pazienza! — gridò Geppetto tutt’a un
tratto rizzandosi in piedi; e infilatasi la vecchia casacca di frustagno, tutta
toppe e rimendi, uscí correndo di casa.
Dopo poco tornò: e quando tornò, aveva in mano
l’Abbecedario per il figliuolo, ma la casacca non l’aveva piú. Il pover’uomo
era in maniche di camicia, e fuori nevicava.
— E la casacca, babbo?
— L’ho venduta.
— Perché l’avete venduta?
— Perché mi faceva caldo. —
Pinocchio capí questa risposta a volo, e non
potendo frenare l’impeto del suo buon cuore, saltò al collo di Geppetto e
cominciò a baciarlo per tutto il viso.
IX
Pinocchio
vende l’Abbecedario per andare a vedere il teatrino dei burattini.
Smesso che fu di nevicare, Pinocchio, col suo
bravo Abbecedario nuovo sotto il braccio, prese la strada che menava alla
scuola: e strada facendo, fantasticava nel suo cervellino mille ragionamenti e
mille castelli in aria uno piú bello dell’altro.
E discorrendo da sé solo, diceva:
— Oggi, alla scuola, voglio subito imparare
a leggere: domani poi imparerò a scrivere, e domani l’altro imparerò a fare i
numeri. Poi, colla mia abilità, guadagnerò molti quattrini e coi primi quattrini
che mi verranno in tasca, voglio subito fare al mio babbo una bella casacca di
panno. Ma che dico di panno? Gliela voglio fare tutta d’argento e d’oro, e coi
bottoni di brillanti. E quel pover’uomo se la merita davvero: perché, insomma,
per comprarmi i libri e per farmi istruire, è rimasto in maniche di camicia...
a questi freddi! Non ci sono che i babbi che sieno capaci di certi
sacrifizi!... —
Mentre tutto commosso diceva cosí, gli parve di
sentire in lontananza una musica di pifferi e di colpi di gran cassa: pí-pí-pí,
pí-pí-pí, zum, zum, zum, zum.
Si fermò e stette in ascolto. Quei suoni venivano
di fondo a una lunghissima strada traversa, che conduceva a un piccolo paesetto
fabbricato sulla spiaggia del mare.
— Che cosa sia questa musica? Peccato che io
debba andare a scuola, se no... —
E rimase lí perplesso. A ogni modo, bisognava
prendere una risoluzione: o a scuola, o a sentire i pifferi.
— Oggi anderò a sentire i pifferi, e domani
a scuola: per andare a scuola c’è sempre tempo — disse finalmente quel monello,
facendo una spallucciata.
Detto fatto, infilò giú per la strada traversa e
cominciò a correre a gambe. Piú correva e piú sentiva distinto il suono dei
pifferi e dei tonfi della gran-cassa: pí-pí-pí, pí-pí-pí, pí-pí-pí, zum, zum,
zum, zum.
Quand’ecco che si trovò in mezzo a una piazza
tutta piena di gente, la quale si affollava intorno a un gran baraccone di
legno e di tela dipinta di mille colori.
— Che cos’è quel baraccone? — domandò
Pinocchio, voltandosi a un ragazzetto che era lí del paese.
— Leggi il cartello, che c’è scritto, e lo
saprai.
— Lo leggerei volentieri, ma per l’appunto
oggi non so leggere.
— Bravo bue! Allora te lo leggerò io. Sappi
dunque che in quel cartello a lettere rosse come il fuoco, c’è scritto: GRAN
TEATRO DEI BURATTINI...
— È molto che è incominciata la commedia?
— Comincia ora.
— E quanto si spende per entrare?
— Quattro soldi. —
Pinocchio, che aveva addosso la febbre della
curiosità, perse ogni ritegno e disse, senza vergognarsi, al ragazzetto col
quale parlava:
— Mi daresti quattro soldi fino a domani?
— Te li darei volentieri — gli rispose
l’altro canzonandolo — ma oggi per l’appunto non te li posso dare.
— Per quattro soldi, ti vendo la mia
giacchetta — gli disse allora il burattino.
— Che vuoi che mi faccia di una giacchetta
di carta fiorita? Se ci piove su, non c’è piú verso di cavarsela da dosso.
— Vuoi comprare le mie scarpe?
— Sono buone per accendere il fuoco.
— Quanto mi dai del berretto?
— Bell’acquisto davvero! Un berretto di
midolla di pane! C’è il caso che i topi me lo vengano a mangiare in
capo! —
Pinocchio era sulle spine. Stava lí lí per fare
un’ultima offerta: ma non aveva coraggio: esitava, tentennava, pativa. Alla
fine disse:
— Vuoi darmi quattro soldi di
quest’Abbecedario nuovo?
— Io sono un ragazzo, e non compro nulla dai
ragazzi — gli rispose il suo piccolo interlocutore, che aveva piú giudizio di
lui.
— Per quattro soldi l’Abbecedario lo prendo
io — gridò un rivenditore di panni usati, che s’era trovato presente alla
conversazione.
E il libro fu venduto lí su due piedi. E pensare
che quel pover’uomo di Geppetto era rimasto a casa, a tremare dal freddo in
maniche di camicia, per comprare l’Abbecedario al figliuolo!
X
I
burattini riconoscono il loro fratello Pinocchio, e gli fanno
una
grandissima festa; ma sul piú bello, esce fuori il burattinaio Mangiafoco,
e
Pinocchio corre il pericolo di fare una brutta fine.
Quando Pinocchio entrò nel teatrino delle
marionette, accadde un fatto che destò una mezza rivoluzione.
Bisogna sapere che il sipario era tirato su e la
commedia era già incominciata.
Sulla scena si vedevano Arlecchino e Pulcinella,
che bisticciavano fra di loro e, secondo il solito, minacciavano da un momento
all’altro di scambiarsi un carico di schiaffi e di bastonate.
La platea, tutta attenta, si mandava a male dalle
grandi risate, nel sentire il battibecco di quei due burattini, che gestivano e
si trattavano d’ogni vitupero con tanta verità, come se fossero proprio due
animali ragionevoli e due persone di questo mondo.
Quando all’improvviso, che è che non è,
Arlecchino smette di recitare, e voltandosi verso il pubblico e accennando
colla mano qualcuno in fondo alla platea, comincia a urlare in tono drammatico:
— Numi del firmamento! sogno o son desto?
Eppure quello laggiú è Pinocchio!...
— È Pinocchio davvero! — grida Pulcinella.
— È proprio lui! — strilla la signora
Rosaura, facendo capolino di fondo alla scena.
— È Pinocchio! è Pinocchio! — urlano in coro
tutti i burattini, uscendo a salti fuori dalle quinte. — È Pinocchio! È il nostro
fratello Pinocchio! Evviva Pinocchio!...
— Pinocchio, vieni quassú da me! — grida
Arlecchino — vieni a gettarti fra le braccia dei tuoi fratelli di legno! —
A questo affettuoso invito, Pinocchio spicca un
salto, e di fondo alla platea va nei posti distinti; poi con un altro salto,
dai posti distinti monta sulla testa del direttore d’orchestra, e di lí schizza
sul palcoscenico.
È impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli
strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera
fratellanza, che Pinocchio ricevé in mezzo a tanto arruffío dagli attori e
dalle attrici di quella compagnia drammatico-vegetale.
Questo spettacolo era commovente, non c’è che
dire: ma il pubblico della platea, vedendo che la commedia non andava piú avanti,
s’impazientí e prese a gridare:
— Vogliamo la commedia, vogliamo la
commedia! —
Tutto fiato buttato via, perché i burattini,
invece di continuare la recita, raddoppiarono il chiasso e le grida, e, postosi
Pinocchio sulle spalle, se lo portarono in trionfo davanti ai lumi della
ribalta.
Allora uscí fuori il burattinaio, un omone cosí
brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come
uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a
terra: basta dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca
era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col
lume acceso di dietro; e con le mani schioccava una grossa frusta, fatta di
serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme.
All’apparizione inaspettata del burattinaio,
ammutolirono tutti: nessuno fiatò piú. Si sarebbe sentito volare una mosca.
Quei poveri burattini, maschi e femmine, tremavano come tante foglie.
— Perché sei venuto a mettere lo scompiglio
nel mio teatro? — domandò il burattinaio a Pinocchio, con un vocione d’Orco
gravemente infreddato di testa.
— La creda, illustrissimo, che la colpa non
è stata mia!...
— Basta cosí! Stasera faremo i nostri
conti. —
Difatti, finita la recita della commedia, il burattinaio
andò in cucina, dov’egli s’era preparato per cena un bel montone, che girava
lentamente infilato nello spiede. E perché gli mancavano le legna per finirlo
di cuocere e di rosolare, chiamò Arlecchino e Pulcinella e disse loro:
— Portatemi di qua quel burattino, che
troverete attaccato al chiodo. Mi pare un burattino fatto di un legname molto
asciutto, e sono sicuro che, a buttarlo sul fuoco, mi darà una bellissima
fiammata all’arrosto. —
Arlecchino e Pulcinella da principio esitarono;
ma impauriti da un’occhiataccia del loro padrone, obbedirono: e dopo poco
tornarono in cucina, portando sulle braccia il povero Pinocchio, il quale,
divincolandosi come un’anguilla fuori dell’acqua, strillava disperatamente:
— Babbo mio, salvatemi! Non voglio morire, no,
non voglio morire!... —
XI
Mangiafoco
starnutisce e perdona a Pinocchio, il quale poi difende dalla morte
il suo
amico Arlecchino.
Il burattinaio Mangiafoco (ché questo era il suo
nome) pareva un uomo spaventoso, non dico di no, specie con quella sua
barbaccia nera che, a uso grembiale, gli copriva tutto il petto e tutte le
gambe; ma nel fondo poi non era un cattiv’uomo. Prova ne sia che quando vide
portarsi davanti quel povero Pinocchio, che si dibatteva per ogni verso,
urlando «Non voglio morire, non voglio morire!», principiò subito a commuoversi
e a impietosirsi; e dopo aver resistito un bel pezzo, alla fine non ne poté
piú, e lasciò andare un sonorissimo starnuto.
A quello starnuto, Arlecchino, che fin allora era
stato afflitto e ripiegato come un salcio piangente, si fece tutto allegro in
viso e chinatosi verso Pinocchio, gli bisbigliò sottovoce:
— Buone nuove, fratello! Il burattinaio ha
starnutito, e questo è segno che s’è mosso a compassione per te, e oramai sei
salvo. —
Perché bisogna sapere che, mentre tutti gli
uomini, quando si sentono impietositi per qualcuno, o piangono, o per lo meno
fanno finta di rasciugarsi gli occhi, Mangiafoco, invece, ogni volta che
s’inteneriva davvero aveva il vizio di starnutire. Era un modo come un altro,
per dare a conoscere agli altri la sensibilità del suo cuore.
Dopo avere starnutito, il burattinaio, seguitando
a fare il burbero, gridò a Pinocchio:
— Finiscila di piangere! I tuoi lamenti mi
hanno messo un’uggiolina qui in fondo allo stomaco... sento uno spasimo, che
quasi quasi... Etcí! Etcí! — e fece altri due starnuti.
— Felicità! — disse Pinocchio.
— Grazie. E il tuo babbo e la tua mamma sono
sempre vivi? — gli domandò Mangiafoco.
— Il babbo, sí: la mamma non l’ho mai
conosciuta.
— Chi lo sa che dispiacere sarebbe per il
tuo vecchio padre, se ora ti facessi gettare fra que’ carboni ardenti! Povero
vecchio! lo compatisco!... Etcí, etcí, etcí — e fece altri tre starnuti.
— Felicità! — disse Pinocchio.
— Grazie! Del resto bisogna compatire anche
me, perché, come vedi, non ho piú legna per finire di cuocere quel montone
arrosto, e tu, dico la verità, in questo caso mi avresti fatto un gran comodo!
Ma ormai mi sono impietosito e ci vuol pazienza. Invece di te, metterò a
bruciare sotto lo spiede qualche burattino della mia Compagnia. Olà,
giandarmi! —
A questo comando comparvero subito due giandarmi
di legno, lunghi lunghi, secchi secchi, col cappello a lucerna in testa e colla
sciabola sfoderata in mano.
Allora il burattinaio disse loro con voce
rantolosa:
— Pigliatemi lí quell’Arlecchino, legatelo
ben bene, e poi gettatelo a bruciare sul fuoco. Io voglio che il mio montone
sia arrostito bene! —
Figuratevi il povero Arlecchino! Fu tanto il suo
spavento, che le gambe gli si ripiegarono e cadde bocconi per terra.
Pinocchio, alla vista di quello spettacolo
straziante, andò a gettarsi ai piedi del burattinaio, e piangendo dirottamente
e bagnandogli di lacrime tutti i peli della lunghissima barba, cominciò a dire
con voce supplichevole:
— Pietà, signor Mangiafoco!...
— Qui non ci son signori! — replicò
duramente il burattinaio.
— Pietà, signor Cavaliere!...
— Qui non ci sono cavalieri!
— Pietà, signor Commendatore!...
— Qui non ci sono commendatori!
— Pietà, Eccellenza!... —
A sentirsi chiamare Eccellenza, il burattinaio
fece subito il bocchino tondo, e diventato tutt’a un tratto piú umano e piú
trattabile, disse a Pinocchio:
— Ebbene, che cosa vuoi da me?
— Vi domando grazia per il povero
Arlecchino!...
— Qui non c’è grazia che tenga. Se ho
risparmiato te, bisogna che faccia mettere sul fuoco lui, perché io voglio che
il mio montone sia arrostito bene.
— In questo caso — gridò fieramente
Pinocchio, rizzandosi e gettando via il suo berretto di midolla di pane — in
questo caso conosco qual è il mio dovere. Avanti, signori giandarmi! Legatemi e
gettatemi là fra quelle fiamme. No, non è giusta che il povero Arlecchino, il
vero amico mio, debba morire per me! —
Queste parole, pronunziate con voce alta e con
accento eroico, fecero piangere tutti i burattini che erano presenti a quella
scena. Gli stessi giandarmi, sebbene fossero di legno, piangevano come due
agnellini di latte.
Mangiafoco, sul principio, rimase duro e immobile
come un pezzo di ghiaccio: ma poi, adagio adagio, cominciò anche lui a
commuoversi e a starnutire. E fatti quattro o cinque starnuti, aprí
affettuosamente le braccia e disse a Pinocchio:
— Tu sei un gran bravo ragazzo! Vieni qua da
me e dammi un bacio. —
Pinocchio corse subito, e arrampicandosi come uno
scoiattolo su per la barba del burattinaio, andò a posargli un bellissimo bacio
sulla punta del naso.
— Dunque la grazia è fatta? — domandò il
povero Arlecchino, con un fil di voce che si sentiva appena.
— La grazia è fatta! — rispose Mangiafoco:
poi soggiunse sospirando e tentennando il capo:
— Pazienza! Per questa sera mi rassegnerò a
mangiare il montone mezzo crudo: ma un’altra volta, guai a chi
toccherà!... —
Alla notizia della grazia ottenuta, i burattini
corsero tutti sul palcoscenico e, accesi i lumi e i lampadari come in serata di
gala, cominciarono a saltare e a ballare. Era l’alba e ballavano sempre.
XII
Il
burattinaio Mangiafoco regala cinque monete d’oro a Pinocchio
perché
le porti al suo babbo Geppetto: e Pinocchio,
invece,
si lascia abbindolare dalla Volpe e dal Gatto e se ne va con loro.
Il giorno dipoi Mangiafoco chiamò in disparte
Pinocchio e gli domandò:
— Come si chiama tuo padre?
— Geppetto.
— E che mestiere fa?
— Il povero.
— Guadagna molto?
— Guadagna tanto quanto ci vuole per non
aver mai un centesimo in tasca. Si figuri che per comprarmi l’Abbecedario della
scuola dové vendere l’unica casacca che aveva addosso: una casacca che, fra
toppe e rimendi, era tutta una piaga.
— Povero diavolo! Mi fa quasi compassione.
Ecco qui cinque monete d’oro. Va’ subito a portargliele e salutalo tanto da
parte mia. —
Pinocchio, com’è facile immaginarselo, ringraziò
mille volte il burattinaio: abbracciò, a uno a uno, tutti i burattini della
compagnia, anche i giandarmi; e fuori di sé dalla contentezza, si mise in
viaggio per ritornarsene a casa sua.
Ma non aveva fatto ancora mezzo chilometro, che
incontrò per la strada una Volpe zoppa da un piede e un Gatto cieco da tutt’e
due gli occhi che se ne andavano là là, aiutandosi fra di loro, da buoni
compagni di sventura. La Volpe, che era zoppa, camminava appoggiandosi al
Gatto: e il Gatto, che era cieco, si lasciava guidare dalla Volpe.
— Buon giorno, Pinocchio — gli disse la
Volpe, salutandolo garbatamente.
— Com’è che sai il mio nome? — domandò il
burattino.
— Conosco bene il tuo babbo.
— Dove l’hai veduto?
— L’ho veduto ieri sulla porta di casa sua.
— E che cosa faceva?
— Era in maniche di camicia e tremava dal
freddo.
— Povero babbo! Ma, se Dio vuole, da oggi in
poi non tremerà piú!...
— Perché?
— Perché io sono diventato un gran signore.
— Un gran signore tu? — disse la Volpe, e
cominciò a ridere di un riso sguaiato e canzonatore: e il Gatto rideva anche
lui, ma per non darlo a vedere, si pettinava i baffi colle zampe davanti.
— C’è poco da ridere — gridò Pinocchio impermalito.
— Mi dispiace davvero di farvi venire l’acquolina in bocca, ma queste qui, se
ve ne intendete, sono cinque bellissime monete d’oro. —
E tirò fuori le monete avute in regalo da
Mangiafoco.
Al simpatico suono di quelle monete, la Volpe per
un moto involontario allungò la gamba che pareva rattrappita, e il Gatto
spalancò tutt’e due gli occhi che parvero due lanterne verdi: ma poi li
richiuse subito, tant’è vero che Pinocchio non si accòrse di nulla.
— E ora — gli domandò la Volpe — che cosa
vuoi farne di codeste monete?
— Prima di tutto — rispose il burattino —
voglio comprare per il mio babbo una bella casacca nuova, tutta d’oro e
d’argento e coi bottoni di brillanti: e poi voglio comprare un Abbecedario per
me.
— Per te?
— Davvero: perché voglio andare a scuola e
mettermi a studiare a buono.
— Guarda me! — disse la Volpe. — Per la
passione sciocca di studiare ho perduto una gamba.
— Guarda me! — disse il Gatto. — Per la
passione sciocca di studiare ho perduto la vista di tutti e due gli
occhi. —
In quel mentre un Merlo bianco, che se ne stava
appollaiato sulla siepe della strada, fece il suo solito verso e disse:
— Pinocchio, non dar retta ai consigli dei
cattivi compagni: se no, te ne pentirai! —
Povero Merlo, non l’avesse mai detto! Il Gatto,
spiccando un gran salto, gli si avventò addosso, e senza dargli nemmeno il
tempo di dire ohi, se lo mangiò in un boccone, con le penne e tutto.
Mangiato che l’ebbe e ripulitosi la bocca, chiuse
gli occhi daccapo, e ricominciò a fare il cieco come prima.
— Povero Merlo! — disse Pinocchio al Gatto —
perché l’hai trattato cosí male?
— Ho fatto per dargli una lezione. Cosí
un’altra volta imparerà a non metter bocca nei discorsi degli altri. —
Erano giunti piú che a mezza strada quando la
Volpe, fermandosi di punto in bianco, disse al burattino:
— Vuoi raddoppiare le tue monete d’oro?
— Cioè?
— Vuoi tu, di cinque miserabili zecchini,
farne cento, mille, duemila?
— Magari! e la maniera?
— La maniera è facilissima. Invece di
tornartene a casa tua, dovresti venir con noi.
— E dove mi volete condurre?
— Nel paese dei Barbagianni. —
Pinocchio ci pensò un poco, e poi disse
risolutamente:
— No, non ci voglio venire. Oramai sono
vicino a casa, e voglio andarmene a casa, dove c’è il mio babbo che m’aspetta.
Chi lo sa, povero vecchio, quanto ha sospirato ieri, a non vedermi tornare. Pur
troppo io sono stato un figliolo cattivo, e il Grillo-parlante aveva ragione
quando diceva: «i ragazzi disobbedienti non possono aver bene in questo mondo».
E io l’ho provato a mie spese, perché mi sono capitate dimolte disgrazie, e
anche ieri sera in casa di Mangiafoco, ho corso pericolo... Brrr! mi viene i
bordoni soltanto a pensarci!
— Dunque — disse la Volpe — vuoi proprio
andare a casa tua? Allora va’ pure, e tanto peggio per te.
— Tanto peggio per te! — ripeté il Gatto.
— Pensaci bene, Pinocchio, perché tu dai un
calcio alla fortuna.
— Alla fortuna! — ripeté il Gatto.
— I tuoi cinque zecchini, dall’oggi al
domani sarebbero diventati duemila.
— Duemila! — ripeté il Gatto.
— Ma com’è mai possibile che diventino
tanti? — domandò Pinocchio, restando a bocca aperta dallo stupore.
— Te lo spiego subito — disse la Volpe. —
Bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c’è un campo benedetto, chiamato
da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci
metti dentro, per esempio, uno zecchino d’oro. Poi ricopri la buca con un po’
di terra: l’annaffi con due secchie d’acqua di fontana, ci getti sopra una
presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la
notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di levata,
ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti
zecchini d’oro quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di
giugno.
— Sicché dunque — disse Pinocchio sempre piú
sbalordito — se io sotterrassi in quel campo i miei cinque zecchini, la mattina
dopo quanti zecchini ci troverei?
— È un conto facilissimo — rispose la Volpe
— un conto che puoi farlo sulla punta delle dita. Poni che ogni zecchino ti
faccia un grappolo di cinquecento zecchini: moltiplica il cinquecento per
cinque, e la mattina dopo ti trovi in tasca duemilacinquecento zecchini
lampanti e sonanti.
— Oh che bella cosa! — gridò Pinocchio,
ballando dall’allegrezza. — Appena che questi zecchini li avrò raccolti, ne
prenderò per me duemila e gli altri cinquecento di piú li darò in regalo a
voialtri due.
— Un regalo a noi? — gridò la Volpe
sdegnandosi e chiamandosi offesa. — Dio te ne liberi!
— Te ne liberi! — ripeté il Gatto.
— Noi — riprese la Volpe — non lavoriamo per
il vile interesse: noi lavoriamo unicamente per arricchire gli altri.
— Gli altri! — ripeté il Gatto.
— Che brave persone! — pensò dentro di sé
Pinocchio: e dimenticandosi lí sul tamburo, del suo babbo, della casacca nuova,
dell’Abbecedario e di tutti i buoni proponimenti fatti, disse alla Volpe e al
Gatto:
— Andiamo subito, io vengo con voi. —
XIII
L’osteria
del «Gambero Rosso».
Cammina, cammina, cammina, alla fine sul far
della sera arrivarono stanchi morti all’osteria del Gambero Rosso.
— Fermiamoci un po’ qui — disse la Volpe —
tanto per mangiare un boccone e per riposarci qualche ora. A mezzanotte poi
ripartiremo per essere domani, all’alba, nel Campo dei miracoli. —
Entrati nell’osteria, si posero tutti e tre a
tavola: ma nessuno di loro aveva appetito.
Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto
di stomaco, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di
pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli
pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il
formaggio grattato!
La Volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche
cosa anche lei: ma siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta,
cosí dové contentarsi di una semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo
contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre,
si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli,
di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta
nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca.
Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio.
Chiese uno spicchio di noce e un cantuccio di pane, e lasciò nel piatto ogni
cosa. Il povero figliuolo, col pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli,
aveva preso un’indigestione anticipata di monete d’oro.
Quand’ebbero cenato, la Volpe disse all’oste:
— Datemi due buone camere, una per il signor
Pinocchio e un’altra per me e per il mio compagno. Prima di ripartire
stiacceremo un sonnellino. Ricordatevi però che a mezzanotte vogliamo essere
svegliati per continuare il nostro viaggio.
— Sissignori — rispose l’oste, e strizzò
l’occhio alla Volpe e al Gatto, come dire: «Ho mangiata la foglia e ci siamo
intesi!...»
Appena che Pinocchio fu entrato nel letto, si
addormentò a colpo e principiò a sognare. E sognando gli pareva di essere in
mezzo a un campo, e questo campo era pieno di arboscelli carichi di grappoli, e
questi grappoli erano carichi di zecchini d’oro che, dondolandosi mossi dal
vento, facevano zin, zin, zin, quasi volessero dire «chi ci vuole, venga a
prenderci». Ma quando Pinocchio fu sul piú bello, quando, cioè, allungò la mano
per prendere a manciate tutte quelle belle monete e mettersele in tasca, si trovò
svegliato all’improvviso da tre violentissimi colpi dati nella porta di camera.
Era l’oste che veniva a dirgli che la mezzanotte
era sonata.
— E i miei compagni sono pronti? — gli
domandò il burattino.
— Altro che pronti! Sono partiti due ore fa.
— Perché mai tanta fretta?
— Perché il Gatto ha ricevuto un’imbasciata,
che il suo gattino maggiore, malato di geloni ai piedi, stava in pericolo di
vita.
— E la cena l’hanno pagata?
— Che vi pare? Quelle lí sono persone troppo
educate, perché facciano un affronto simile alla signoria vostra.
— Peccato! Quest’affronto mi avrebbe fatto
tanto piacere! — disse Pinocchio, grattandosi il capo. Poi domandò:
— E dove hanno detto di aspettarmi quei
buoni amici?
— Al Campo dei miracoli, domattina, allo
spuntare del giorno. —
Pinocchio pagò uno zecchino per la cena sua e per
quella dei suoi compagni, e dopo partí.
Ma si può dire che partisse a tastoni, perché
fuori dell’osteria c’era un buio cosí buio che non ci si vedeva da qui a lí.
Nella campagna all’intorno non si sentiva alitare una foglia. Solamente, di
tanto in tanto, alcuni uccellacci notturni, traversando la strada da una siepe
all’altra, venivano a sbattere le ali sul naso di Pinocchio, il quale facendo
un salto indietro per la paura, gridava: — Chi va là? — e l’eco delle colline
circostanti ripeteva in lontananza: — Chi va là? chi va là? chi va là? —
Intanto, mentre camminava, vide sul tronco di un
albero un piccolo animaletto che riluceva di una luce pallida e opaca, come un
lumino da notte dentro una lampada di porcellana trasparente.
— Chi sei? — gli domandò Pinocchio.
— Sono l’ombra del Grillo-parlante — rispose
l’animaletto con una vocina fioca fioca, che pareva venisse dal mondo di là.
— Che vuoi da me? — disse il burattino.
— Voglio darti un consiglio. Ritorna
indietro e porta i quattro zecchini, che ti sono rimasti, al tuo povero babbo,
che piange e si dispera per non averti piú veduto.
— Domani il mio babbo sarà un gran signore,
perché questi quattro zecchini diventeranno duemila.
— Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che
promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito o sono matti o
imbroglioni! Dài retta a me, ritorna indietro.
— E io invece voglio andare avanti.
— L’ora è tarda!...
— Voglio andare avanti.
— La nottata è scura...
— Voglio andare avanti.
— La strada è pericolosa...
— Voglio andare avanti.
— Ricordati che i ragazzi che vogliono fare
di capriccio e a modo loro, prima o poi se ne pentono.
— Le solite storie. Buona notte, Grillo.
— Buona notte, Pinocchio, e che il cielo ti salvi
dalla guazza e dagli assassini. —
Appena dette queste ultime parole, il
Grillo-parlante si spense a un tratto, come si spenge un lume soffiandoci
sopra, e la strada rimase piú buia di prima.
XIV
Pinocchio,
per non aver dato retta ai buoni consigli del Grillo-parlante,
s’imbatte
negli assassini.
— Davvero — disse fra sé il burattino
rimettendosi in viaggio — come siamo disgraziati noi altri poveri ragazzi!
Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci dànno dei consigli. A
lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i nostri babbi e i
nostri maestri; tutti: anche i Grilli-parlanti. Ecco qui: perché io non ho
voluto dar retta a quell’uggioso di Grillo, chi lo sa quante disgrazie, secondo
lui, mi dovrebbero accadere! Dovrei incontrare anche gli assassini! Meno male
che agli assassini io non ci credo, né ci ho creduto mai. Per me gli assassini
sono stati inventati apposta dai babbi, per far paura ai ragazzi che vogliono
andar fuori la notte. E poi se anche li trovassi qui sulla strada, mi darebbero
forse soggezione? Neanche per sogno. Anderei loro sul viso, gridando: «Signori
assassini, che cosa vogliono da me? Si rammentino che con me non si scherza! Se
ne vadano dunque per i fatti loro, e zitti!» A questa parlantina fatta sul
serio, quei poveri assassini, mi par di vederli, scapperebbero via come il
vento. Caso poi fossero tanto ineducati da non volere scappare, allora
scapperei io, e cosí la farei finita... —
Ma Pinocchio non poté finire il suo ragionamento,
perché in quel punto gli parve di sentire dietro di sé un leggerissimo fruscío
di foglie.
Si voltò a guardare, e vide nel buio due
figuracce nere, tutte imbacuccate in due sacchi da carbone, le quali correvano
dietro a lui a salti e in punta di piedi, come se fossero due fantasmi.
— Eccoli davvero! — disse dentro di sé: e
non sapendo dove nascondere i quattro zecchini, se li nascose in bocca e
precisamente sotto la lingua.
Poi si provò a scappare. Ma non aveva ancora
fatto il primo passo, che sentí agguantarsi per le braccia e intese due voci
orribili e cavernose, che gli dissero:
— O la borsa o la vita! —
Pinocchio non potendo rispondere con le parole, a
motivo delle monete che aveva in bocca, fece mille salamelecchi e mille
pantomime, per dare ad intendere a quei due incappati, di cui si vedevano
soltanto gli occhi attraverso i buchi dei sacchi, che lui era un povero
burattino e che non aveva in tasca nemmeno un centesimo falso.
— Via, via! Meno ciarle e fuori i denari! —
gridarono minacciosamente i due briganti.
E il burattino fece col capo e colle mani un
segno, come dire: «Non ne ho».
— Metti fuori i denari o sei morto — disse
l’assassino piú alto di statura.
— Morto! — ripeté l’altro.
— E dopo ammazzato te, ammazzeremo anche tuo
padre!
— Anche tuo padre!
— No, no, no, il mio povero babbo no! —
gridò Pinocchio con accento disperato: ma nel gridare cosí, gli zecchini gli
sonarono in bocca.
— Ah furfante! dunque i danari te li sei
nascosti sotto la lingua? Sputali subito! —
E Pinocchio, duro!
— Ah! tu fai il sordo? Aspetta un po’, ché
penseremo noi a farteli sputare! —
Difatti uno di loro afferrò il burattino per la
punta del naso e quell’altro lo prese per la bazza, e lí cominciarono a tirare
screanzatamente uno per in qua e l’altro per in là, tanto da costringerlo a
spalancare la bocca: ma non ci fu verso. La bocca del burattino pareva
inchiodata e ribadita.
Allora l’assassino piú piccolo di statura, cavato
fuori un coltellaccio, provò a conficcarglielo a guisa di leva e di scalpello
fra le labbra: ma Pinocchio, lesto come un lampo, gli azzannò la mano coi
denti, e dopo avergliela con un morso staccata di netto, la sputò; e figuratevi
la sua meraviglia quando, invece di una mano, si accòrse di avere sputato in
terra uno zampetto di gatto.
Incoraggito da questa prima vittoria, si liberò a
forza dalle unghie degli assassini, e saltata la siepe della strada, cominciò a
fuggire per la campagna. E gli assassini a correre dietro a lui, come due cani
dietro una lepre: e quello che aveva perduto uno zampetto correva con una gamba
sola, né si è saputo mai come facesse.
Dopo una corsa di quindici chilometri, Pinocchio
non ne poteva piú. Allora, vistosi perso, si arrampicò su per il fusto di un
altissimo pino e si pose a sedere in vetta ai rami. Gli assassini tentarono di
arrampicarsi anche loro, ma giunti a metà del fusto sdrucciolarono e,
ricascando a terra, si spellarono le mani e i piedi.
Non per questo si dettero per vinti: ché anzi,
raccolto un fastello di legna secche a piè del pino, vi appiccarono il fuoco.
In men che non si dice, il pino cominciò a bruciare e a divampare come una
candela agitata dal vento. Pinocchio, vedendo che le fiamme salivano sempre piú
e non volendo far la fine del piccione arrosto, spiccò un bel salto di vetta
all’albero, e via a correre daccapo attraverso ai campi e ai vigneti. E gli
assassini dietro, sempre dietro, senza stancarsi mai.
Intanto cominciava a baluginare il giorno e si
rincorrevano sempre; quand’ecco che Pinocchio si trovò improvvisamente sbarrato
il passo da un fosso largo e profondissimo, tutto pieno di acquaccia sudicia,
color del caffè e latte. Che fare? «Una, due, tre!» gridò il burattino, e
slanciandosi con una gran rincorsa, saltò dall’altra parte. E gli assassini
saltarono anche loro, ma non avendo preso bene la misura, patatunfete!...
cascarono giú nel bel mezzo del fosso. Pinocchio che sentí il tonfo e gli
schizzi dell’acqua, urlò ridendo e seguitando a correre:
— Buon bagno, signori assassini! —
E già si figurava che fossero bell’e affogati,
quando invece, voltandosi a guardare, si accòrse che gli correvano dietro tutti
e due, sempre imbacuccati nei loro sacchi, e grondanti acqua come due panieri
sfondati.
XV
Gli
assassini inseguono Pinocchio; e dopo averlo raggiunto,
lo
impiccano a un ramo della Quercia grande.
Allora il burattino, perdutosi d’animo, fu
proprio sul punto di gettarsi in terra e di darsi per vinto, quando, nel girare
gli occhi all’intorno, vide fra mezzo al verde cupo degli alberi biancheggiare
in lontananza una casina candida come la neve.
— Se io avessi tanto fiato da arrivare fino
a quella casa, forse sarei salvo! — disse dentro di sé.
E senza indugiare un minuto, riprese a correre
per il bosco a carriera distesa. E gli assassini sempre dietro.
Dopo una corsa disperata di quasi due ore,
finalmente, tutto trafelato, arrivò alla porta di quella casina e bussò.
Nessuno rispose.
Tornò a bussare con maggior violenza, perché
sentiva avvicinarsi il rumore dei passi e il respiro grosso e affannoso de’
suoi persecutori. Lo stesso silenzio.
Avvedutosi che il bussare non giovava a nulla,
cominciò per disperazione a dare calci e zuccate nella porta. Allora si
affacciò alla finestra una bella Bambina, coi capelli turchini e il viso bianco
come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la
quale, senza muover punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse
dall’altro mondo:
— In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti
morti.
— Aprimi almeno tu! — gridò Pinocchio
piangendo e raccomandandosi.
— Sono morta anch’io.
— Morta? e allora che cosa fai costí alla
finestra?
— Aspetto la bara che venga a portarmi
via. —
Appena detto cosí, la Bambina disparve, e la
finestra si richiuse senza far rumore.
— O bella Bambina dai capelli
turchini, — gridava Pinocchio — aprimi per carità. Abbi compassione
di un povero ragazzo inseguito dagli assass... —
Ma non poté finir la parola, perché sentí
afferrarsi per il collo, e le solite due vociacce che gli brontolarono
minacciosamente:
— Ora non ci scappi piú! —
Il burattino, vedendosi balenare la morte dinanzi
agli occhi, fu preso da un tremito cosí forte, che nel tremare, gli sonavano le
giunture delle sue gambe di legno e i quattro zecchini che teneva nascosti
sotto la lingua.
— Dunque? — gli domandarono gli
assassini — vuoi aprirla la bocca, sí o no? Ah! non rispondi?... Lascia
fare: ché questa volta te la faremo aprir noi!... —
E cavati fuori due coltellacci lunghi lunghi e
affilati come rasoi, zaff e zaff..., gli affibbiarono due colpi nel mezzo alle
reni.
Ma il burattino per sua fortuna era fatto d’un
legno durissimo, motivo per cui le lame, spezzandosi, andarono in mille schegge
e gli assassini rimasero col manico dei coltelli in mano, a guardarsi in
faccia.
— Ho capito — disse allora un di
loro — bisogna impiccarlo! Impicchiamolo!
— Impicchiamolo! — ripeté l’altro.
Detto fatto, gli legarono le mani dietro le
spalle, e, passatogli un nodo scorsoio intorno alla gola, lo attaccarono
penzoloni al ramo di una grossa pianta detta la Quercia grande.
Poi si posero là, seduti sull’erba, aspettando
che il burattino facesse l’ultimo sgambetto: ma il burattino, dopo tre ore,
aveva sempre gli occhi aperti, la bocca chiusa e sgambettava piú che mai.
Annoiati finalmente di aspettare, si voltarono a
Pinocchio e gli dissero sghignazzando:
— Addio a domani. Quando domani torneremo
qui, si spera che ci farai la garbatezza di farti trovare bell’e morto e con la
bocca spalancata. —
E se ne andarono.
Intanto s’era levato un vento impetuoso di
tramontana, che soffiando e mugghiando con rabbia, sbatacchiava in qua e in là
il povero impiccato, facendolo dondolare violentemente come il battaglio d’una
campana che suona a festa. E quel dondolío gli cagionava acutissimi spasimi, e
il nodo scorsoio, stringendosi sempre piú alla gola, gli toglieva il respiro.
A poco a poco gli occhi gli si appannarono; e
sebbene sentisse avvicinarsi la morte, pure sperava sempre che da un momento
all’altro sarebbe capitata qualche anima pietosa a dargli aiuto. Ma quando,
aspetta aspetta, vide che non compariva nessuno, proprio nessuno, allora gli
tornò in mente il suo povero babbo... e balbettò quasi moribondo:
— Oh babbo mio! se tu fossi qui!... —
E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi,
aprí la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lí come
intirizzito.
XVI
La bella
Bambina dai capelli turchini fa raccogliere il burattino:
lo mette
a letto, e chiama tre medici per sapere se sia vivo o morto.
In quel mentre che il povero Pinocchio impiccato
dagli assassini a un ramo della Quercia grande, pareva oramai piú morto che
vivo, la bella Bambina dai capelli turchini si affacciò daccapo alla finestra,
e impietositasi alla vista di quell’infelice che, sospeso per il collo, ballava
il trescone alle ventate di tramontana, batté per tre volte le mani insieme, e
fece tre piccoli colpi.
A questo segnale si sentí un gran rumore di ali
che volavano con foga precipitosa, e un grosso Falco venne a posarsi sul
davanzale della finestra.
— Che cosa comandate, mia graziosa Fata? —
disse il Falco abbassando il becco in atto di riverenza (perché bisogna sapere
che la Bambina dai capelli turchini non era altro in fin dei conti che una
bonissima Fata, che da piú di mill’anni abitava nelle vicinanze di quel bosco).
— Vedi tu quel burattino attaccato penzoloni
a un ramo della Quercia grande?
— Lo vedo.
— Orbene: vola subito laggiú; rompi col tuo
fortissimo becco il nodo che lo tiene sospeso in aria, e posalo delicatamente
sdraiato sull’erba, a piè della Quercia. —
Il Falco volò via e dopo due minuti tornò,
dicendo:
— Quel che mi avete comandato, è fatto.
— E come l’hai trovato? Vivo o morto?
— A vederlo pareva morto, ma non dev’essere
ancora morto perbene, perché appena gli ho sciolto il nodo scorsoio che lo
stringeva intorno alla gola, ha lasciato andare un sospiro, balbettando a mezza
voce: «Ora mi sento meglio!...» —
Allora la Fata, battendo le mani insieme, fece
due piccoli colpi, e apparve un magnifico Can-barbone, che camminava ritto
sulle gambe di dietro, tale e quale come se fosse un uomo.
Il Can-barbone era vestito da cocchiere in livrea
di gala. Aveva in capo un nicchiettino a tre punte gallonato d’oro, una
parrucca bianca coi riccioli che gli scendevano giú per il collo, una giubba
color di cioccolata coi bottoni di brillanti e con due grandi tasche per
tenervi gli ossi, che gli regalava a pranzo la padrona, un paio di calzon corti
di velluto cremisi, le calze di seta, gli scarpini scollati, e di dietro una
specie di fodera da ombrelli, tutta di raso turchino, per mettervi dentro la
coda, quando il tempo cominciava a piovere.
— Su da bravo, Medoro! — disse la Fata al
Can-barbone. — Fa’ subito attaccare la piú bella carrozza della mia scuderia e
prendi la via del bosco. Arrivato che sarai sotto la Quercia grande, troverai disteso
sull’erba un povero burattino mezzo morto. Raccoglilo con garbo, posalo pari
pari su i cuscini della carrozza e portamelo qui. Hai capito? —
Il Can-barbone, per fare intendere che aveva
capito, dimenò tre o quattro volte la fodera di raso turchino, che aveva
dietro, e partí come un barbero.
Di lí a poco, si vide uscire dalla scuderia una
bella carrozzina color dell’aria, tutta imbottita di penne di canarino e
foderata nell’interno di panna montata e di crema coi savoiardi. La carrozzina
era tirata da cento pariglie di topini bianchi, e il Can-barbone, seduto a
cassetta, schioccava la frusta a destra e a sinistra, come un vetturino
quand’ha paura di aver fatto tardi.
Non era ancora passato un quarto d’ora, che la
carrozzina tornò e la Fata, che stava aspettando sull’uscio di casa, prese in
collo il povero burattino, e portatolo in una cameretta che aveva le pareti di
madreperla, mandò subito a chiamare i medici piú famosi del vicinato.
E i medici arrivarono subito uno dopo l’altro:
arrivò, cioè, un Corvo, una Civetta e un Grillo-parlante.
— Vorrei sapere da lor signori — disse la
Fata, rivolgendosi ai tre medici riuniti intorno al letto di Pinocchio — vorrei
sapere da lor signori se questo disgraziato burattino sia vivo o
morto!... —
A quest’invito, il Corvo, facendosi avanti per il
primo, tastò il polso a Pinocchio, poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo
dei piedi: e quand’ebbe tastato ben bene, pronunziò solennemente queste parole:
— A mio credere il burattino è bell’e morto:
ma se per disgrazia non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre
vivo!
— Mi dispiace — disse la Civetta — di dover
contraddire il Corvo, mio illustre amico e collega: per me, invece, il
burattino è sempre vivo; ma se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno
che è morto davvero.
— E lei non dice nulla? — domandò la Fata al
Grillo-parlante.
— Io dico che il medico prudente, quando non
sa quello che dice, la miglior cosa che possa fare, è quella di stare zitto.
Del resto quel burattino lí, non m’è fisonomia nuova: io lo conosco da un
pezzo! —
Pinocchio, che fin allora era stato immobile come
un vero pezzo di legno, ebbe una specie di fremito convulso, che fece scuotere
tutto il letto.
— Quel burattino lí — seguitò a dire il
Grillo-parlante — è una birba matricolata... —
Pinocchio aprí gli occhi e li richiuse subito.
— È un monellaccio, uno svogliato, un
vagabondo... —
Pinocchio si nascose la faccia sotto i lenzuoli.
— Quel burattino lí è un figliuolo
disubbidiente, che farà morire di crepacuore il suo povero babbo!... —
A questo punto si sentí nella camera un suono
soffocato di pianti e di singhiozzi. Figuratevi come rimasero tutti, allorché,
sollevati un poco i lenzuoli, si accòrsero che quello che piangeva e
singhiozzava era Pinocchio.
— Quando il morto piange, è segno che è in
via di guarigione — disse solennemente il Corvo.
— Mi duole di contraddire il mio illustre
amico e collega — soggiunse la Civetta — ma per me quando il morto piange,
è segno che gli dispiace a morire. —
XVII
Pinocchio
mangia lo zucchero, ma non vuol purgarsi:
però
quando vede i becchini che vengono a portarlo via, allora si purga.
Poi dice
una bugia e per gastigo gli cresce il naso.
Appena i tre medici furono usciti di camera, la
Fata si accostò a Pinocchio, e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accòrse
che era travagliato da un febbrone da non si dire.
Allora sciolse una certa polverina bianca in un
mezzo bicchier d’acqua, e porgendolo al burattino, gli disse amorosamente:
— Bevila, e in pochi giorni sarai
guarito. —
Pinocchio guardò il bicchiere, storse un po’ la
bocca, e poi dimandò con voce di piagnisteo:
— È dolce o amara?
— È amara, ma ti farà bene.
— Se è amara non la voglio.
— Da’ retta a me: bevila.
— A me l’amaro non mi piace.
— Bevila: e quando l’avrai bevuta, ti darò
una pallina di zucchero, per rifarti la bocca.
— Dov’è la pallina di zucchero?
— Eccola qui — disse la Fata, tirandola
fuori da una zuccheriera d’oro.
— Prima voglio la pallina di zucchero, e poi
beverò quell’acquaccia amara...
— Me lo prometti?
— Sí... —
La Fata gli dètte la pallina, e Pinocchio, dopo
averla sgranocchiata e ingoiata in un àttimo, disse leccandosi i labbri:
— Bella cosa se anche lo zucchero fosse una
medicina!... Mi purgherei tutti i giorni.
— Ora mantieni la promessa e bevi queste
poche gocciole d’acqua, che ti renderanno la salute. —
Pinocchio prese di mala voglia il bicchiere in
mano e vi ficcò dentro la punta del naso: poi se l’accostò alla bocca: poi
tornò a ficcarci la punta del naso: finalmente disse:
— È troppo amara! troppo amara! Io non la
posso bere.
— Come fai a dirlo se non l’hai nemmeno
assaggiata?
— Me lo figuro! L’ho sentita all’odore.
Voglio prima un’altra pallina di zucchero... e poi la beverò! —
Allora la Fata, con tutta la pazienza di una
buona mamma, gli pose in bocca un altro po’ di zucchero; e dopo gli presentò
daccapo il bicchiere.
— Cosí non la posso bere! — disse il
burattino, facendo mille smorfie.
— Perché?
— Perché mi dà noia quel guanciale che ho
laggiú su i piedi. —
La Fata gli levò il guanciale.
— È inutile! Nemmeno cosí la posso bere.
— Che cos’altro ti dà noia?
— Mi dà noia l’uscio di camera, che è mezzo
aperto. —
La Fata andò, e chiuse l’uscio di camera.
— Insomma — gridò Pinocchio, dando in uno scoppio
di pianto — quest’acquaccia amara, non la voglio bere, no, no, no!...
— Ragazzo mio, te ne pentirai...
— Non me n’importa...
— La tua malattia è grave...
— Non me n’importa...
— La febbre ti porterà in poche ore
all’altro mondo...
— Non me n’importa...
— Non hai paura della morte?
— Nessuna paura!... Piuttosto morire, che
bevere quella medicina cattiva. —
A questo punto, la porta della camera si
spalancò, ed entrarono dentro quattro conigli neri come l’inchiostro, che
portavano sulle spalle una piccola bara da morto.
— Che cosa volete da me? — gridò Pinocchio,
rizzandosi tutto impaurito a sedere sul letto.
— Siamo venuti a prenderti — rispose il
coniglio piú grosso.
— A prendermi?... Ma io non sono ancora
morto!...
— Ancora no: ma ti restano pochi minuti di
vita, avendo tu ricusato di bevere la medicina, che ti avrebbe guarito della
febbre!...
— O Fata mia, o Fata mia! — cominciò allora
a strillare il burattino — datemi subito quel bicchiere... Spicciatevi, per
carità, perché non voglio morire, no... non voglio morire. —
E preso il bicchiere con tutte e due le mani, lo
votò in un fiato.
— Pazienza! — dissero i conigli. — Per
questa volta abbiamo fatto il viaggio a ufo. — E tiratisi di nuovo la piccola
bara sulle spalle, uscirono di camera bofonchiando e mormorando fra i denti.
Fatto sta che di lí a pochi minuti, Pinocchio
saltò giú dal letto, bell’e guarito; perché bisogna sapere che i burattini di
legno hanno il privilegio di ammalarsi di rado e di guarire prestissimo.
E la Fata, vedendolo correre e ruzzare per la
camera, vispo e allegro come un gallettino di primo canto, gli disse:
— Dunque la mia medicina t’ha fatto bene
davvero?
— Altro che bene! Mi ha rimesso al mondo!...
— E allora come mai ti sei fatto tanto
pregare a beverla?
— Egli è che noi ragazzi siamo tutti cosí!
Abbiamo piú paura delle medicine che del male.
— Vergogna! I ragazzi dovrebbero sapere che
un buon medicamento preso a tempo, può salvarli da una grave malattia e
fors’anche dalla morte...
— Oh! ma un’altra volta non mi farò tanto pregare!
Mi rammenterò di quei conigli neri, con la bara sulle spalle... e allora
piglierò subito il bicchiere in mano, e giú!...
— Ora vieni un po’ qui da me, e raccontami
come andò che ti trovasti fra le mani degli assassini.
— Gli andò, che il burattinaio Mangiafoco mi
dètte cinque monete d’oro, e mi disse: «To’, portale al tuo babbo!», e io,
invece, per la strada trovai una Volpe e un Gatto, due persone molto per bene,
che mi dissero: «Vuoi che codeste monete diventino mille e duemila? Vieni con
noi, e ti condurremo al Campo dei miracoli». E io dissi: «Andiamo»; e loro
dissero: «Fermiamoci qui all’osteria del Gambero rosso, e dopo la mezzanotte
ripartiremo». E io, quando mi svegliai, loro non c’erano piú, perché erano
partiti. Allora io cominciai a camminare di notte, che era un buio che pareva
impossibile, per cui trovai per la strada due assassini dentro due sacchi da
carbone, che mi dissero: «Metti fuori i quattrini»; e io dissi: «non ce n’ho»;
perché le monete d’oro me l’ero nascoste in bocca, e uno degli assassini si
provò a mettermi le mani in bocca, e io con un morso gli staccai la mano e poi
la sputai, ma invece di una mano sputai uno zampetto di gatto. E gli assassini
a corrermi dietro, e io corri che ti corro, finché mi raggiunsero, e mi
legarono per il collo a un albero di questo bosco col dire: «Domani torneremo
qui, e allora sarai morto e colla bocca aperta, e cosí ti porteremo via le
monete d’oro che hai nascoste sotto la lingua».
— E ora le quattro monete dove le hai messe?
— gli domandò la Fata.
— Le ho perdute! — rispose Pinocchio; ma
disse una bugia, perché invece le aveva in tasca.
Appena detta la bugia il suo naso, che era già
lungo, gli crebbe subito due dita di piú.
— E dove le hai perdute?
— Nel bosco qui vicino. —
A questa seconda bugia, il naso seguitò a
crescere.
— Se le hai perdute nel bosco vicino — disse
la Fata — le cercheremo e le ritroveremo: perché tutto quello che si perde nel
vicino bosco, si ritrova sempre.
— Ah! ora che mi rammento bene — replicò il
burattino imbrogliandosi — le quattro monete non le ho perdute, ma senza
avvedermene, le ho inghiottite mentre bevevo la vostra medicina. —
A questa terza bugia, il naso gli si allungò in
un modo cosí straordinario, che il povero Pinocchio non poteva piú girarsi da
nessuna parte. Se si voltava di qui, batteva il naso nel letto o nei vetri
della finestra, se si voltava di là, lo batteva nelle pareti o nella porta di
camera, se alzava un po’ piú il capo, correva il rischio di ficcarlo in un
occhio alla Fata.
E la Fata lo guardava e rideva.
— Perché ridete? — gli domandò il burattino,
tutto confuso e impensierito di quel suo naso che cresceva a occhiate.
— Rido della bugia che hai detto.
— Come mai sapete che ho detto una bugia?
— Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono
subito, perché ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe
corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto è di quelle che
hanno il naso lungo. —
Pinocchio, non sapendo piú dove nascondersi per
la vergogna, si provò a fuggire di camera; ma non gli riuscí. Il suo naso era
cresciuto tanto, che non passava piú dalla porta.
XVIII
Pinocchio
ritrova la Volpe e il Gatto, e va con loro a seminare le quattro monete nel
Campo de’ miracoli.
Come potete immaginarvelo, la Fata lasciò che il
burattino piangesse e urlasse una buona mezz’ora, a motivo di quel suo naso che
non passava piú dalla porta di camera; e lo fece per dargli una severa lezione
e perché si correggesse dal brutto vizio di dire le bugie, il piú brutto vizio
che possa avere un ragazzo. Ma quando lo vide trasfigurato e cogli occhi fuori
della testa dalla gran disperazione, allora, mossa a pietà, batté le mani
insieme, e a quel segnale entrarono in camera dalla finestra un migliaio di
grossi uccelli chiamati Picchi, i quali, posatisi tutti sul naso di Pinocchio,
cominciarono a beccarglielo tanto e poi tanto, che in pochi minuti quel naso
enorme e spropositato si trovò ridotto alla sua grandezza naturale.
— Quanto siete buona, Fata mia, — disse il
burattino, asciugandosi gli occhi — e quanto bene vi voglio!
— Ti voglio bene anch’io — rispose la Fata —
e se tu vuoi rimanere con me, tu sarai il mio fratellino e io la tua buona
sorellina...
— Io resterei volentieri... ma il mio povero
babbo?
— Ho pensato a tutto. Il tuo babbo è stato
digià avvertito: e prima che faccia notte, sarà qui.
— Davvero? — gridò Pinocchio, saltando
dall’allegrezza. — Allora, Fatina mia, se vi contentate, vorrei andargli
incontro! Non vedo l’ora di poter dare un bacio a quel povero vecchio, che ha sofferto
tanto per me!
— Va’ pure, ma bada di non ti sperdere.
Prendi la via del bosco, e sono sicura che lo incontrerai. —
Pinocchio partí: e appena entrato nel bosco,
cominciò a correre come un capriòlo. Ma quando fu arrivato a un certo punto,
quasi in faccia alla Quercia grande, si fermò, perché gli parve di aver sentito
gente fra mezzo alle frasche. Difatti vide apparire sulla strada, indovinate
chi?... la Volpe e il Gatto, ossia i due compagni di viaggio coi quali aveva
cenato all’osteria del Gambero rosso.
— Ecco il nostro caro Pinocchio! — gridò la
Volpe, abbracciandolo e baciandolo. — Come mai sei qui?
— Come mai sei qui? — ripeté il Gatto.
— È una storia lunga — disse il burattino —
e ve la racconterò a comodo. Sappiate però che l’altra notte, quando mi avete
lasciato solo sull’osteria, ho trovato gli assassini per la strada...
— Gli assassini?... Oh povero amico! E che
cosa volevano?
— Mi volevano rubare le monete d’oro.
— Infami!... — disse la Volpe.
— Infamissimi! — ripeté il Gatto.
— Ma io cominciai a scappare — continuò a
dire il burattino — e loro sempre dietro: finché mi raggiunsero e m’impiccarono
a un ramo di quella quercia... —
E Pinocchio accennò la Quercia grande, che era lí
a due passi.
— Si può sentir di peggio? — disse la Volpe.
— In che mondo siamo condannati a vivere! Dove troveremo un rifugio sicuro noi
altri galantuomini? —
Nel tempo che parlavano cosí, Pinocchio si
accòrse che il Gatto era zoppo dalla gamba destra davanti, perché gli mancava
in fondo tutto lo zampetto cogli unghioli: per cui gli domandò:
— Che cosa hai fatto del tuo
zampetto? —
Il Gatto voleva rispondere qualche cosa, ma
s’imbrogliò. Allora la Volpe disse subito:
— Il mio amico è troppo modesto, e per
questo non risponde. Risponderò io per lui. Sappi dunque che un’ora fa abbiamo
incontrato sulla strada un vecchio lupo, quasi svenuto dalla fame, che ci ha
chiesto un po’ d’elemosina. Non avendo noi da dargli nemmeno una lisca di
pesce, che cosa ha fatto l’amico mio, che ha davvero un cuore di Cesare? Si è staccato
coi denti uno zampetto delle sue gambe davanti e l’ha gettato a quella povera
bestia, perché potesse sdigiunarsi. —
E la Volpe, nel dir cosí, si asciugò una lagrima.
Pinocchio, commosso anche lui, si avvicinò al
Gatto, sussurrandogli negli orecchi:
— Se tutti i gatti ti somigliassero,
fortunati i topi!...
— E ora che cosa fai in questi luoghi? —
domandò la Volpe al burattino.
— Aspetto il mio babbo, che deve arrivare
qui di momento in momento.
— E le tue monete d’oro?
— Le ho sempre in tasca, meno una che la
spesi all’osteria del Gambero rosso.
— E pensare che, invece di quattro monete,
potrebbero diventare domani mille e duemila! Perché non dài retta al mio
consiglio? Perché non vai a seminarle nel Campo dei miracoli?
— Oggi è impossibile: vi anderò un altro
giorno.
— Un altro giorno sarà tardi!... — disse la
Volpe.
— Perché?
— Perché quel campo è stato comprato da un
gran signore, e da domani in là non sarà piú permesso a nessuno di seminarvi i
denari.
— Quant’è distante di qui il Campo dei
miracoli?
— Due chilometri appena. Vuoi venire con
noi? Fra mezz’ora sei là: semini subito le quattro monete: dopo pochi minuti ne
raccogli duemila, e stasera ritorni qui colle tasche piene. Vuoi venire con
noi? —
Pinocchio esitò un poco a rispondere, perché gli
tornò in mente la buona Fata, il vecchio Geppetto e gli avvertimenti del
Grillo-parlante; ma poi finí col fare come fanno tutti i ragazzi senza un fil
di giudizio e senza cuore; finí, cioè, col dare una scrollatina di capo, e
disse alla Volpe e al Gatto:
— Andiamo pure: io vengo con voi. —
E partirono.
Dopo aver camminato una mezza giornata arrivarono
a una città che aveva nome «Acchiappa-citrulli». Appena entrato in città,
Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano
dall’appetito, di pecore tosate, che tremavano dal freddo, di galline rimaste
senza cresta e senza bargigli, che chiedevano l’elemosina d’un chicco di
granturco, di grosse farfalle, che non potevano piú volare, perché avevano
venduto le loro bellissime ali colorite, di pavoni tutti scodati, che si
vergognavano a farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti,
rimpiangendo le loro scintillanti penne d’oro e d’argento, oramai perdute per
sempre.
In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi,
passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche
Volpe, o qualche Gazza ladra, o qualche uccellaccio di rapina.
— E il Campo dei miracoli dov’è? — domandò
Pinocchio.
— È qui a due passi. —
Detto fatto traversarono la città e, usciti fuori
dalle mura, si fermarono in un campo solitario che, su per giú, somigliava a
tutti gli altri campi.
— Eccoci giunti — disse la Volpe al
burattino. — Ora chinati giú a terra, scava con le mani una piccola buca nel
campo, e mettici dentro le monete d’oro. —
Pinocchio obbedí. Scavò la buca, ci pose le
quattro monete d’oro che gli erano rimaste: e dopo ricoprí la buca con un po’
di terra.
— Ora poi — disse la Volpe — va’ alla gora
qui vicina, prendi una secchia d’acqua e annaffia il terreno dove hai
seminato. —
Pinocchio andò alla gora, e perché non aveva lí
per lí una secchia, si levò di piedi una ciabatta e, riempitala d’acqua,
annaffiò la terra che copriva la buca. Poi domandò:
— C’è altro da fare?
— Nient’altro — rispose la Volpe. — Ora possiamo
andar via. Tu poi ritorna qui fra una ventina di minuti, e troverai
l’arboscello già spuntato dal suolo e coi rami tutti carichi di monete. —
Il povero burattino, fuori di sé dalla gran
contentezza, ringraziò mille volte la Volpe e il Gatto, e promise loro un
bellissimo regalo.
— Noi non vogliamo regali — risposero que’
due malanni. — A noi ci basta di averti insegnato il modo di arricchire senza
durar fatica, e siamo contenti come pasque. —
Ciò detto salutarono Pinocchio, e augurandogli
una buona raccolta, se ne andarono per i fatti loro.
XIX
Pinocchio
è derubato delle sue monete d’oro,
e per
gastigo, si busca quattro mesi di prigione.
Il burattino, ritornato in città, cominciò a
contare i minuti a uno a uno; e, quando gli parve che fosse l’ora, riprese
subito la strada che menava al Campo dei miracoli.
E mentre camminava con passo frettoloso, il cuore
gli batteva forte e gli faceva tic, tac, tic, tac, come un orologio da sala,
quando corre davvero. E intanto pensava dentro di sé:
«E se invece di mille monete, ne trovassi su i
rami dell’albero duemila?... E se invece di duemila, ne trovassi cinquemila? e
se invece di cinquemila, ne trovassi centomila? Oh che bel signore, allora, che
diventerei!... Vorrei avere un bel palazzo, mille cavallini di legno e mille
scuderie, per potermi baloccare, una cantina di rosoli e di alchermes, e una
libreria tutta piena di canditi, di torte, di panattoni, di mandorlati e di
cialdoni colla panna».
Cosí fantasticando, giunse in vicinanza del
campo, e lí si fermò a guardare se per caso avesse potuto scorgere qualche
albero coi rami carichi di monete: ma non vide nulla. Fece altri cento passi in
avanti, e nulla: entrò sul campo... andò proprio su quella piccola buca, dove
aveva sotterrato i suoi zecchini, e nulla. Allora diventò pensieroso e,
dimenticando le regole del Galateo e della buona creanza, tirò fuori una mano
di tasca e si dètte una lunghissima grattatina di capo.
In quel mentre sentí fischiarsi negli orecchi una
gran risata: voltatosi in su, vide sopra un albero un grosso Pappagallo che si
spollinava le poche penne che aveva addosso.
— Perché ridi? — gli domandò Pinocchio con
voce di bizza.
— Rido, perché nello spollinarmi mi sono
fatto il solletico sotto le ali. —
Il burattino non rispose. Andò alla gora e riempita
d’acqua la solita ciabatta, si pose novamente ad annaffiare la terra, che
ricopriva le monete d’oro.
Quand’ecco che un’altra risata, anche piú
impertinente della prima, si fece sentire nella solitudine silenziosa di quel
campo.
— Insomma — gridò Pinocchio, arrabbiandosi —
si può sapere, Pappagallo mal educato, di che cosa ridi?
— Rido di quei barbagianni, che credono a
tutte le scioccherie e che si lasciano trappolare da chi è piú furbo di loro.
— Parli forse di me?
— Sí, parlo di te, povero Pinocchio; di te
che sei cosí dolce di sale da credere che i denari si possano seminare e
raccogliere nei campi, come si seminano i fagiuoli e le zucche. Anch’io l’ho
creduto una volta, e oggi ne porto le pene. Oggi (ma troppo tardi!) mi son
dovuto persuadere che per mettere insieme onestamente pochi soldi bisogna
saperseli guadagnare o col lavoro delle proprie mani o coll’ingegno della
propria testa.
— Non ti capisco — disse il burattino, che
già cominciava a tremare dalla paura.
— Pazienza! Mi spiegherò meglio — soggiunse
il Pappagallo. — Sappi dunque che, mentre tu eri in città, la Volpe e il Gatto
sono tornati in questo campo: hanno preso le monete d’oro sotterrate, e poi
sono fuggiti come il vento. E ora chi li raggiunge, è bravo! —
Pinocchio restò a bocca aperta, e non volendo
credere alle parole del Pappagallo, cominciò colle mani e colle unghie a
scavare il terreno che aveva annaffiato. E scava, scava, scava, fece una buca
cosí profonda, che ci sarebbe entrato per ritto un pagliaio: ma le monete non c’erano
piú.
Preso allora dalla disperazione, tornò di corsa
in città e andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due
malandrini, che lo avevano derubato.
Il giudice era uno scimmione della razza dei
Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua
barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d’oro, senza vetri, che era
costretto a portare continuamente, a motivo d’una flussione d’occhi, che lo
tormentava da parecchi anni.
Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò
per filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dètte il nome,
il cognome e i connotati dei malandrini, e finí chiedendo giustizia.
Il giudice lo ascoltò con molta benignità; prese
vivissima parte al racconto: s’intenerí, si commosse: e quando il burattino non
ebbe piú nulla da dire, allungò la mano e sonò il campanello.
A quella scampanellata comparvero subito due can
mastini vestiti da giandarmi.
Allora il giudice, accennando Pinocchio ai
giandarmi, disse loro:
— Quel povero diavolo è stato derubato di
quattro monete d’oro: pigliatelo dunque, e mettetelo subito in prigione. —
Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra
capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i giandarmi, a
scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in
gattabuia.
E lí v’ebbe a rimanere quattro mesi: quattro
lunghissimi mesi: e vi sarebbe rimasto anche di piú se non si fosse dato un
caso fortunatissimo. Perché bisogna sapere che il giovane Imperatore che
regnava nella città di Acchiappa-citrulli, avendo riportato una bella vittoria
contro i suoi nemici, ordinò grandi feste pubbliche, luminarie, fuochi
artificiali, corse di barberi e di velocipedi, e in segno di maggiore
esultanza, volle che fossero aperte anche le carceri e mandati fuori tutti i
malandrini.
— Se escono di prigione gli altri, voglio
uscire anch’io — disse Pinocchio al carceriere.
— Voi no, — rispose il carceriere — perché
voi non siete del bel numero...
— Domando scusa; — replicò Pinocchio — sono
un malandrino anch’io.
— In questo caso avete mille ragioni — disse
il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e salutandolo, gli aprí
le porte della prigione e lo lasciò scappare.
XX
Liberato
dalla prigione, si avvia per tornare a casa della Fata;
ma lungo
la strada trova un serpente orribile, e poi rimane preso alla tagliuola.
Figuratevi l’allegrezza di Pinocchio quando si
sentí libero. Senza stare a dire che è e che non è, uscí subito fuori della
città e riprese la strada, che doveva ricondurlo alla Casina della Fata.
A cagione del tempo piovigginoso, la strada era
diventata tutta un pantano e ci si andava fino a mezza gamba. Ma il burattino
non se ne dava per inteso. Tormentato dalla passione di rivedere il suo babbo e
la sua sorellina dai capelli turchini, correva a salti come un can levriero, e
nel correre le pillacchere gli schizzavano fin sopra il berretto. Intanto
andava dicendo fra sé e sé: «Quante disgrazie mi sono accadute... E me le
merito! perché io sono un burattino testardo e piccoso... e voglio far sempre
tutte le cose a modo mio, senza dar retta a quelli che mi voglion bene e che
hanno mille volte piú giudizio di me!... Ma da questa volta in là, faccio
proponimento di cambiar vita e di diventare un ragazzo ammodo e ubbidiente...
Tanto ormai ho bell’e visto che i ragazzi, a essere disubbidienti, ci scapitano
sempre e non ne infilano mai una per il su’ verso. E il mio babbo mi avrà
aspettato?... Ce lo troverò a casa della Fata? È tanto tempo, pover’uomo, che
non lo vedo piú, che mi struggo di fargli mille carezze e di finirlo dai baci!
E la Fata mi perdonerà la brutta azione che le ho fatta?... E pensare che ho
ricevuto da lei tante attenzioni e tante cure amorose... e pensare che se oggi
son sempre vivo, lo debbo a lei!... Ma si può dare un ragazzo piú ingrato e piú
senza cuore di me?...»
Nel tempo che diceva cosí, si fermò tutt’a un
tratto spaventato, e fece quattro passi indietro.
Che cosa aveva veduto?
Aveva veduto un grosso Serpente, disteso attraverso
alla strada, che aveva la pelle verde, gli occhi di fuoco e la coda appuntata,
che gli fumava come una cappa di camino.
Impossibile immaginarsi la paura del burattino:
il quale, allontanatosi piú di mezzo chilometro, si mise a sedere sopra un monticello
di sassi, aspettando che il Serpente se ne andasse una buona volta per i fatti
suoi e lasciasse libero il passo della strada.
Aspettò un’ora; due ore; tre ore: ma il Serpente
era sempre là, e, anche di lontano, si vedeva il rosseggiare de’ suoi occhi di
fuoco e la colonna di fumo che gli usciva dalla punta della coda.
Allora Pinocchio, figurandosi di aver coraggio,
si avvicinò a pochi passi di distanza, e facendo una vocina dolce, insinuante e
sottile, disse al Serpente:
— Scusi, signor Serpente, che mi farebbe il
piacere di tirarsi un pochino da una parte, tanto da lasciarmi passare? —
Fu lo stesso che dire al muro. Nessuno si mosse.
Allora riprese colla solita vocina:
— Deve sapere, signor Serpente, che io vado
a casa, dove c’è il mio babbo che mi aspetta e che è tanto tempo che non lo
vedo piú!... Si contenta dunque che io seguiti per la mia strada? —
Aspettò un segno di risposta a quella dimanda: ma
la risposta non venne: anzi il Serpente, che fin allora pareva arzillo e pieno
di vita, diventò immobile e quasi irrigidito. Gli occhi gli si chiusero e la
coda gli smesse di fumare.
— Che sia morto davvero?... — disse
Pinocchio, dandosi una fregatina di mani dalla gran contentezza; e senza
mettere tempo in mezzo, fece l’atto di scavalcarlo, per passare dall’altra
parte della strada. Ma non aveva ancora finito di alzare la gamba, che il
Serpente si rizzò all’improvviso come una molla scattata: e il burattino, nel
tirarsi indietro spaventato, inciampò e cadde per terra.
E per l’appunto cadde cosí male, che restò col
capo conficcato nel fango della strada e con le gambe ritte su in aria.
Alla vista di quel burattino, che sgambettava a
capo fitto con una velocità incredibile, il Serpente fu preso da una tal
convulsione di risa, che ridi, ridi, ridi, alla fine, dallo sforzo del troppo
ridere, gli si strappò una vena sul petto: e quella volta morí davvero.
Allora Pinocchio ricominciò a correre per
arrivare a casa della Fata avanti che si facesse buio. Ma lungo la strada, non
potendo piú reggere ai morsi terribili della fame, saltò in un campo
coll’intenzione di cogliere poche ciocche d’uva moscadella. Non l’avesse mai
fatto!
Appena giunto sotto la vite, crac... sentí
stringersi le gambe da due ferri taglienti, che gli fecero vedere quante stelle
c’erano in cielo.
Il povero burattino era rimasto preso a una
tagliuola appostata là da alcuni contadini per beccarvi alcune grosse faine,
che erano il flagello di tutti i pollai del vicinato.
XXI
Pinocchio
è preso da un contadino, il quale lo costringe a far da can di guardia
a un
pollajo.
Pinocchio, come potete figurarvelo, si dètte a
piangere, a strillare, a raccomandarsi: ma erano pianti e grida inutili, perché
lí all’intorno non si vedevano case e dalla strada non passava anima viva.
Intanto si fece notte.
Un po’ per lo spasimo della tagliuola che gli
segava gli stinchi, e un po’ per la paura di trovarsi solo e al buio in mezzo a
quei campi, il burattino principiava quasi a svenirsi; quando a un tratto,
vedendosi passare una lucciola di sul capo, la chiamò e le disse:
— O Lucciolina, mi faresti la carità di
liberarmi da questo supplizio?...
— Povero figliuolo! — replicò la Lucciola,
fermandosi impietosita a guardarlo. — Come mai sei rimasto colle gambe
attanagliate fra codesti ferri arrotati?
— Sono entrato nel campo per cogliere due
grappoli di quest’uva moscadella, e...
— Ma l’uva era tua?
— No...
— E allora chi t’ha insegnato a portar via
la roba degli altri?...
— Avevo fame...
— La fame, ragazzo mio, non è una buona ragione
per potersi appropriare la roba che non è nostra...
— È vero, è vero! — gridò Pinocchio
piangendo — ma un’altra volta non lo farò piú. —
A questo punto il dialogo fu interrotto da un
piccolissimo rumore di passi, che si avvicinavano. Era il padrone del campo che
veniva in punta di piedi a vedere se qualcuna di quelle faine, che gli
mangiavano di nottetempo i polli, fosse rimasta presa al trabocchetto della
tagliuola.
E la sua maraviglia fu grandissima quando, tirata
fuori la lanterna di sotto al pastrano, s’accòrse che, invece di una faina,
c’era rimasto preso un ragazzo.
— Ah, ladracchiolo! — disse il contadino
incollerito — dunque sei tu che mi porti via le galline?
— Io no, io no! — gridò Pinocchio,
singhiozzando. — Io sono entrato nel campo per prendere soltanto due grappoli
d’uva!
— Chi ruba l’uva è capacissimo di rubare
anche i polli. Lascia fare a me, che ti darò una lezione da ricordartene per un
pezzo. —
E aperta la tagliuola, afferrò il burattino per
la collottola e lo portò di peso fino a casa, come si porterebbe un agnellino
di latte.
Arrivato che fu sull’aia dinanzi alla casa, lo
scaraventò in terra: e tenendogli un piede sul collo, gli disse:
— Oramai è tardi e voglio andare a letto. I
nostri conti li aggiusteremo domani. Intanto, siccome oggi m’è morto il cane
che mi faceva la guardia di notte, tu prenderai subito il suo posto. Tu mi
farai da cane di guardia. —
Detto fatto, gl’infilò al collo un grosso collare
tutto coperto di spunzoni di ottone, e glielo strinse in modo, da non poterselo
levare passandoci la testa di dentro. Al collare c’era attaccata una lunga
catenella di ferro: e la catenella era fissata nel muro.
— Se questa notte — disse il contadino —
cominciasse a piovere, tu puoi andare a cuccia in quel casotto di legno, dove
c’è sempre la paglia che ha servito di letto per quattr’anni al mio povero
cane. E se per disgrazia venissero i ladri, ricordati di stare a orecchi ritti
e di abbaiare. —
Dopo quest’ultimo avvertimento, il contadino
entrò in casa chiudendo la porta con tanto di catenaccio: e il povero Pinocchio
rimase accovacciato sull’aia piú morto che vivo, a motivo del freddo, della
fame e della paura. E di tanto in tanto cacciandosi rabbiosamente le mani
dentro al collare, che gli serrava la gola, diceva piangendo:
— Mi sta bene!... Pur troppo mi sta bene! Ho
voluto fare lo svogliato, il vagabondo... ho voluto dar retta ai cattivi
compagni, e per questo la fortuna mi perseguita sempre. Se fossi stato un
ragazzino per bene, come ce n’è tanti; se avessi avuto voglia di studiare e di
lavorare, se fossi rimasto in casa col mio povero babbo, a quest’ora non mi
troverei qui, in mezzo ai campi, a fare il cane di guardia alla casa di un
contadino. Oh se potessi rinascere un’altra volta! Ma oramai è tardi, e ci vuol
pazienza!... —
Fatto questo piccolo sfogo, che gli venne proprio
dal cuore, entrò dentro il casotto e si addormentò.
XXII
Pinocchio
scuopre i ladri,
e in
ricompensa di essere stato fedele vien posto in libertà.
Ed era già piú di due ore che dormiva
saporitamente; quando verso la mezzanotte fu svegliato da un bisbiglio e da un
pissi-pissi di vocine strane, che gli parve di sentire nell’aia. Messa fuori la
punta del naso dalla buca del casotto, vide riunite a consiglio quattro
bestiuole di pelame scuro, che parevano gatti. Ma non erano gatti: erano faine,
animaletti carnivori, ghiottissimi specialmente d’uova e di pollastrine
giovani. Una di queste faine, staccandosi dalle sue compagne, andò alla buca
del casotto e disse sottovoce:
— Buona sera, Melampo.
— Io non mi chiamo Melampo — rispose il
burattino.
— O dunque chi sei?
— Io sono Pinocchio.
— E che cosa fai costí?
— Faccio il cane di guardia.
— O Melampo dov’è? dov’è il vecchio cane,
che stava in questo casotto?
— È morto questa mattina.
— Morto? Povera bestia!... Era tanto
buono!... Ma giudicandoti dalla fisonomia, anche te mi sembri un cane di garbo.
— Domando scusa, io non sono un cane!...
— O chi sei?
— Io sono un burattino.
— E fai da cane di guardia?
— Pur troppo: per mia punizione!...
— Ebbene, io ti propongo gli stessi patti,
che avevo col defunto Melampo: e sarai contento.
— E questi patti sarebbero?
— Noi verremo una volta la settimana, come
per il passato, a visitare di notte questo pollaio, e porteremo via otto
galline. Di queste galline, sette le mangeremo noi, e una la daremo a te, a
condizione, s’intende bene, che tu faccia finta di dormire e non ti venga mai
l’estro di abbaiare e di svegliare il contadino.
— E Melampo faceva proprio cosí? — domandò
Pinocchio.
— Faceva cosí, e fra noi e lui, siamo andati
sempre d’accordo. Dormi dunque tranquillamente, e stai sicuro che prima di
partire di qui, ti lasceremo sul casotto una gallina bell’e pelata per la
colazione di domani. Ci siamo intesi bene?
— Anche troppo bene!... — rispose Pinocchio:
e tentennò il capo in un certo modo minaccioso, come se avesse voluto dire: —
Fra poco ci riparleremo!... —
Quando le quattro faine si credettero sicure del
fatto loro, andarono difilato al pollaio, che rimaneva appunto vicinissimo al
casotto del cane; e aperta a furia di denti e di unghioli la porticina di
legno, che ne chiudeva l’entrata, vi sgusciarono dentro, una dopo l’altra. Ma
non erano ancora finite d’entrare, che sentirono la porticina richiudersi con
grandissima violenza.
Quello che l’aveva richiusa era Pinocchio; il
quale, non contento di averla richiusa, vi posò davanti per maggior sicurezza
una grossa pietra, a guisa di puntello.
E poi cominciò ad abbaiare: e, abbaiando proprio
come se fosse un cane di guardia, faceva colla voce: bú-bú-bú-bú.
A quell’abbaiata, il contadino saltò il letto, e
preso il fucile e affacciatosi alla finestra, domandò:
— Che c’è di nuovo?
— Ci sono i ladri! — rispose Pinocchio.
— Dove sono?
— Nel pollaio.
— Ora scendo subito. —
E difatti, in men che si dice amen, il contadino
scese: entrò di corsa nel pollaio, e dopo avere acchiappate e rinchiuse in un
sacco le quattro faine, disse loro con accento di vera contentezza:
— Alla fine siete cascate nelle mie mani!
Potrei punirvi, ma sí vil non sono! Mi contenterò, invece, di portarvi domani
all’oste del vicino paese, il quale vi spellerà e vi cucinerà a uso lepre dolce
e forte. È un onore che non vi meritate, ma gli uomini generosi, come me, non
badano a queste piccolezze!... —
Quindi, avvicinatosi a Pinocchio, cominciò a
fargli molte carezze, e, fra le altre cose, gli domandò:
— Com’hai fatto a scoprire il complotto di
queste quattro ladroncelle? E dire che Melampo, il mio fido Melampo, non s’era
mai accorto di nulla!... —
Il burattino, allora, avrebbe potuto raccontare
quel che sapeva; avrebbe potuto, cioè, raccontare i patti vergognosi che
passavano fra il cane e le faine: ma ricordatosi che il cane era morto, pensò
subito dentro di sé: — A che serve accusare i morti?... I morti son morti, e la
miglior cosa che si possa fare è quella di lasciarli in pace!...
— All’arrivo delle faine sull’aia, eri
sveglio o dormivi? — continuò a chiedergli il contadino.
— Dormivo — rispose Pinocchio — ma le faine mi
hanno svegliato coi loro chiacchiericci, e una è venuta fin qui al casotto per
dirmi: «Se prometti di non abbaiare, e di non svegliare il padrone, noi ti
regaleremo una pollastra bell’e pelata!...» Capite, eh? Avere la sfacciataggine
di fare a me una simile proposta! Perché bisogna sapere che io sono un
burattino, che avrò tutti i difetti di questo mondo: ma non avrò mai quello di
star di balla e di reggere il sacco alla gente disonesta! —
— Bravo ragazzo! — gridò il contadino,
battendogli sur una spalla. — Cotesti sentimenti ti fanno onore: e per provarti
la mia grande soddisfazione, ti lascio libero fin d’ora di tornare a
casa. —
E gli levò il collare da cane.
XXIII
Pinocchio
piange la morte della bella Bambina dai capelli turchini:
poi
trova un Colombo, che lo porta sulla riva del mare, e lí si getta nell’acqua
per
andare in aiuto del suo babbo Geppetto.
Appena Pinocchio non sentí piú il peso durissimo
e umiliante di quel collare intorno al collo, si pose a scappare attraverso ai
campi, e non si fermò un solo minuto finché non ebbe raggiunta la strada
maestra, che doveva ricondurlo alla Casina della Fata.
Arrivato sulla strada maestra, si voltò in giú a
guardare nella sottoposta pianura, e vide benissimo, a occhio nudo, il bosco,
dove disgraziatamente aveva incontrato la Volpe e il Gatto: vide, fra mezzo
agli alberi, inalzarsi la cima di quella Quercia grande, alla quale era stato
appeso ciondoloni per il collo: ma, guarda di qui, guarda di là, non gli fu
possibile di vedere la piccola casa della bella Bambina dai capelli turchini.
Allora ebbe una specie di tristo presentimento, e
datosi a correre con quanta forza gli rimaneva nelle gambe, si trovò in pochi
minuti sul prato, dove sorgeva una volta la Casina bianca. Ma la Casina bianca
non c’era piú. C’era, invece, una piccola pietra di marmo, sulla quale si
leggevano in carattere stampatello queste dolorose parole:
QUI GIACE
LA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI
MORTA DI DOLORE
PER ESSERE STATA ABBANDONATA DAL SUO
FRATELLINO PINOCCHIO
Come rimanesse il burattino, quand’ebbe compitate
alla peggio quelle parole, lo lascio pensare a voi. Cadde bocconi a terra, e
coprendo di mille baci quel marmo mortuario, dètte in un grande scoppio di
pianto. Pianse tutta la notte, e la mattina dopo, sul far del giorno, piangeva
sempre, sebbene negli occhi non avesse piú lacrime: e le sue grida e i suoi
lamenti erano cosí strazianti ed acuti, che tutte le colline all’intorno ne
ripetevano l’eco.
E piangendo diceva:
«O Fatina mia, perché sei morta?... perché,
invece di te, non sono morto io, che sono tanto cattivo, mentre tu eri tanto
buona?... E il mio babbo dove sarà? O Fatina mia, dimmi dove posso trovarlo,
ché voglio stare sempre con lui, e non lasciarlo piú! piú! piú!... O Fatina
mia, dimmi che non è vero che sei morta!... Se davvero mi vuoi bene... se vuoi
bene al tuo fratellino, rivivisci... ritorna viva come prima!... Non ti
dispiace a vedermi solo, abbandonato da tutti?... Se arrivano gli assassini, mi
attaccheranno daccapo al ramo dell’albero... e allora morirò per sempre. Che
vuoi che io faccia qui solo in questo mondo? Ora che ho perduto te e il mio
babbo, chi mi darà da mangiare? Dove anderò a dormire la notte? Chi mi farà la
giacchettina nuova? Oh! sarebbe meglio, cento volte meglio, che morissi
anch’io! Sí, voglio morire! ih! ih! ih!...»
E mentre si disperava a questo modo, fece l’atto
di volersi strappare i capelli: ma i suoi capelli, essendo di legno, non poté
nemmeno levarsi il gusto di ficcarci dentro le dita.
Intanto passò su per aria un grosso Colombo, il
quale soffermatosi, a ali distese, gli gridò da una grande altezza:
— Dimmi, bambino, che cosa fai costaggiú?
— Non lo vedi? piango! — disse Pinocchio
alzando il capo verso quella voce e strofinandosi gli occhi colla manica della
giacchetta.
— Dimmi — soggiunse allora il Colombo — non
conosci per caso fra i tuoi compagni, un burattino, che ha nome Pinocchio?
— Pinocchio?... Hai detto Pinocchio? —
ripeté il burattino saltando subito in piedi. — Pinocchio sono io! —
Il Colombo, a questa risposta, si calò velocemente
e venne a posarsi a terra. Era piú grosso di un tacchino.
— Conoscerai dunque anche Geppetto! —
domandò al burattino.
— Se lo conosco! È il mio povero babbo! Ti
ha forse parlato di me? Mi conduci da lui? ma è sempre vivo? rispondimi per
carità; è sempre vivo?
— L’ho lasciato tre giorni fa sulla spiaggia
del mare.
— Che cosa faceva?
— Si fabbricava da sé una piccola barchetta,
per traversare l’Oceano. Quel pover’uomo sono piú di quattro mesi che gira per
il mondo in cerca di te: e non avendoti potuto mai trovare, ora si è messo in
capo di cercarti nei paesi lontani del nuovo mondo.
— Quanto c’è di qui alla spiaggia? — domandò
Pinocchio con ansia affannosa.
— Piú di mille chilometri.
— Mille chilometri? O Colombo mio, che bella
cosa potessi avere le tue ali!...
— Se vuoi venire, ti ci porto io.
— Come?
— A cavallo sulla mia groppa. Sei peso
dimolto?
— Peso? tutt’altro! Son leggiero come una
foglia. —
E lí, senza stare a dir altro, Pinocchio saltò
sulla groppa al Colombo; e messa una gamba di qui e l’altra di là, come fanno i
cavallerizzi, gridò tutto contento: «Galoppa, galoppa, cavallino, ché mi preme
di arrivar presto!...»
Il Colombo prese l’aíre e in pochi minuti arrivò
col volo tanto in alto, che toccava quasi le nuvole. Giunto a quell’altezza straordinaria,
il burattino ebbe la curiosità di voltarsi in giú a guardare: e fu preso da
tanta paura e da tali giracapi che, per evitare il pericolo di venir di sotto,
si avviticchiò colle braccia, stretto stretto, al collo della sua piumata
cavalcatura.
Volarono tutto il giorno. Sul far della sera, il
Colombo disse:
— Ho una gran sete!
— E io una gran fame! — soggiunse Pinocchio.
— Fermiamoci a questa colombaia pochi
minuti; e dopo ci rimetteremo in viaggio, per essere domattina all’alba sulla
spiaggia del mare. —
Entrarono in una colombaia deserta, dove c’era
soltanto una catinella piena d’acqua e un cestino ricolmo di vecce.
Il burattino, in tempo di vita sua, non aveva mai
potuto patire le vecce: a sentir lui, gli facevano nausea, gli rivoltavano lo
stomaco: ma quella sera ne mangiò a strippapelle, e quando l’ebbe quasi finite,
si voltò al Colombo e gli disse:
— Non avrei mai creduto che le vecce fossero
cosí buone!
— Bisogna persuadersi, ragazzo mio, —
replicò il Colombo — che quando la fame dice davvero e non c’è altro da
mangiare, anche le vecce diventano squisite! La fame non ha capricci né
ghiottonerie! —
Fatto alla svelta un piccolo spuntino, si
riposero in viaggio, e via! La mattina dopo arrivarono sulla spiaggia del mare.
Il Colombo posò a terra Pinocchio, e non volendo
nemmeno la seccatura di sentirsi ringraziare per aver fatto una buona azione,
riprese subito il volo e sparí.
La spiaggia era piena di gente che urlava e
gesticolava, guardando verso il mare.
— Che cos’è accaduto? — domandò Pinocchio a
una vecchina.
— Gli è accaduto che un povero babbo, avendo
perduto il figliuolo, gli è voluto entrare in una barchetta per andare a
cercarlo di là dal mare; e il mare oggi è molto cattivo e la barchetta sta per
andare sott’acqua...
— Dov’è la barchetta?
— Eccola laggiú, diritta al mio dito — disse
la vecchia, accennando una piccola barca che, veduta a quella distanza, pareva
un guscio di noce con dentro un omino piccino piccino.
Pinocchio appuntò gli occhi da quella parte, e
dopo aver guardato attentamente, cacciò un urlo acutissimo gridando:
— Gli è il mi’ babbo! gli è il mi’
babbo! —
Intanto la barchetta, sbattuta dall’infuriare
dell’onde, ora spariva fra i grossi cavalloni, ora tornava a galleggiare: e
Pinocchio, ritto sulla punta di un alto scoglio, non finiva piú dal chiamare il
suo babbo per nome, e dal fargli molti segnali colle mani e col moccichino da
naso e perfino col berretto che aveva in capo.
E parve che Geppetto, sebbene fosse molto lontano
dalla spiaggia, riconoscesse il figliuolo, perché si levò il berretto anche lui
e lo salutò e, a furia di gesti, gli fece capire che sarebbe tornato volentieri
indietro; ma il mare era tanto grosso, che gl’impediva di lavorare col remo e
di potersi avvicinare alla terra.
Tutt’a un tratto venne una terribile ondata, e la
barca sparí. Aspettarono che la barca tornasse a galla; ma la barca non si vide
piú tornare.
— Pover’omo — dissero allora i pescatori,
che erano raccolti sulla spiaggia; e brontolando sottovoce una preghiera, si
mossero per tornarsene alle loro case.
Quand’ecco che udirono un urlo disperato, e
voltandosi indietro, videro un ragazzetto che, di vetta a uno scoglio, si
gettava in mare gridando:
— Voglio salvare il mio babbo! —
Pinocchio, essendo tutto di legno, galleggiava
facilmente e nuotava come un pesce. Ora si vedeva sparire sott’acqua, portato
dall’impeto dei flutti, ora riappariva fuori con una gamba o con un braccio, a
grandissima distanza dalla terra. Alla fine lo persero d’occhio e non lo videro
piú.
— Povero ragazzo! — dissero allora i
pescatori, che erano raccolti sulla spiaggia; e brontolando sottovoce una
preghiera, tornarono alle loro case.
XXIV
Pinocchio
arriva all’isola delle «Api industriose» e ritrova la Fata.
Pinocchio, animato dalla speranza di arrivare in
tempo a dare aiuto al suo povero babbo, nuotò tutta quanta la notte.
E che orribile nottata fu quella! Diluviò,
grandinò, tuonò spaventosamente e con certi lampi, che pareva di giorno.
Sul far del mattino, gli riuscí di vedere poco
distante una lunga striscia di terra. Era un’isola in mezzo al mare.
Allora fece di tutto per arrivare a quella
spiaggia: ma inutilmente. Le onde, rincorrendosi e accavallandosi, se lo
abballottavano fra di loro, come se fosse stato un fuscello o un filo di
paglia. Alla fine, e per sua buona fortuna, venne un’ondata tanto prepotente e
impetuosa, che lo scaraventò di peso sulla rena del lido.
Il colpo fu cosí forte che, battendo in terra,
gli crocchiarono tutte le costole e tutte le congiunture: ma si consolò subito
col dire:
— Anche per questa volta l’ho scampata
bella! —
Intanto a poco a poco il cielo si rasserenò; il
sole apparve fuori in tutto il suo splendore, e il mare diventò tranquillissimo
e buono come un olio.
Allora il burattino distese i suoi panni al sole
per rasciugarli, e si pose a guardare di qua e di là se per caso avesse potuto
scorgere su quella immensa spianata d’acqua una piccola barchetta con un omino
dentro. Ma dopo aver guardato ben bene, non vide altro dinanzi a sé che cielo,
mare e qualche vela di bastimento, ma cosí lontana lontana, che pareva una
mosca.
— Sapessi almeno come si chiama quest’isola!
— andava dicendo. — Sapessi almeno se quest’isola è abitata da gente di garbo,
voglio dire da gente che non abbia il vizio di attaccare i ragazzi ai rami
degli alberi! ma a chi mai posso domandarlo? a chi, se non c’è
nessuno?... —
Quest’idea di trovarsi solo, solo, solo, in mezzo
a quel gran paese disabitato, gli messe addosso tanta malinconia, che stava lí
lí per piangere; quando tutt’a un tratto vide passare, a poca distanza dalla
riva, un grosso pesce, che se ne andava tranquillamente per i fatti suoi, con
tutta la testa fuori dell’acqua.
Non sapendo come chiamarlo per nome, il burattino
gli gridò a voce alta, per farsi sentire:
— Ehi, signor pesce, che mi permetterebbe
una parola?
— Anche due — rispose il pesce, il quale era
un Delfino cosí garbato, come se ne trovano pochi in tutti i mari del mondo.
— Mi farebbe il piacere di dirmi se in
quest’isola vi sono dei paesi dove si possa mangiare, senza pericolo d’esser
mangiati?
— Ve ne sono sicuro — rispose il Delfino. —
Anzi, ne troverai uno poco lontano di qui.
— E che strada si fa per andarvi?
— Devi prendere quella viottola là, a
mancina, e camminare sempre diritto al naso. Non puoi sbagliare.
— Mi dica un’altra cosa. Lei che passeggia
tutto il giorno e tutta la notte per il mare, non avrebbe incontrato per caso
una piccola barchettina con dentro il mi’ babbo?
— E chi è il tuo babbo?
— Gli è il più babbo buono del mondo, come
io sono il figliuolo più cattivo che si possa dare.
— Colla burrasca che ha fatto questa notte —
rispose il Delfino — la barchetta sarà andata sott’acqua.
— E il mio babbo?
— A quest’ora l’avrà inghiottito il
terribile pesce-cane, che da qualche giorno è venuto a spargere lo sterminio e
la desolazione nelle nostre acque.
— Che è grosso dimolto questo pesce-cane? —
domandò Pinocchio, che di già cominciava a tremare dalla paura.
— Se gli è grosso!... — replicò il Delfino.
— Perché tu possa fartene un’idea, ti dirò che è piú grosso di un casamento di
cinque piani, ed ha una boccaccia cosí larga e profonda, che ci passerebbe
comodamente tutto il treno della strada ferrata colla macchina accesa.
— Mamma mia! — gridò spaventato il
burattino; e rivestitosi in fretta e furia, si voltò al Delfino e gli disse:
— Arrivedella, signor pesce: scusi tanto
l’incomodo e mille grazie della sua garbatezza. —
Detto ciò, prese subito la viottola e cominciò a
camminare di un passo svelto: tanto svelto, che pareva quasi che corresse. E a
ogni piú piccolo rumore che sentiva, si voltava subito a guardare indietro, per
la paura di vedersi inseguire da quel terribile pesce-cane grosso come una casa
di cinque piani e con un treno della strada ferrata in bocca.
Dopo aver camminato piú di mezz’ora, arrivò a un
piccolo paese detto «il paese delle Api industriose». Le strade formicolavano
di persone che correvano di qua e di là per le loro faccende: tutti lavoravano,
tutti avevano qualche cosa da fare. Non si trovava un ozioso o un vagabondo,
nemmeno a cercarlo col lumicino.
— Ho capito; — disse subito quello svogliato
di Pinocchio — questo paese non è fatto per me! Io non son nato per
lavorare! —
Intanto la fame lo tormentava; perché erano
oramai passate ventiquattr’ore che non aveva mangiato piú nulla; nemmeno una
pietanza di vecce.
Che fare?
Non gli restavano che due modi per potersi
sdigiunare: o chiedere un po’ di lavoro, o chiedere in elemosina un soldo o un
boccon di pane.
A chiedere l’elemosina si vergognava: perché il
suo babbo gli aveva predicato sempre che l’elemosina hanno il diritto di
chiederla solamente i vecchi e gl’infermi. I veri poveri, in questo mondo,
meritevoli di assistenza e di compassione, non sono altro che quelli che, per
ragione d’età o di malattia, si trovano condannati a non potersi piú guadagnare
il pane col lavoro delle proprie mani. Tutti gli altri hanno l’obbligo di
lavorare: e se non lavorano e patiscono la fame, tanto peggio per loro.
In quel frattempo, passò per la strada un uomo
tutto sudato e trafelato, il quale da sé solo tirava con gran fatica due
carretti carichi di carbone.
Pinocchio, giudicandolo dalla fisonomia per un
buon uomo, gli si accostò e, abbassando gli occhi dalla vergogna, gli disse
sottovoce:
— Mi fareste la carità di darmi un soldo,
perché mi sento morir dalla fame?
— Non un soldo solo — rispose il carbonaio —
ma te ne do quattro, a patto che tu m’aiuti a tirare fino a casa questi due
carretti di carbone.
— Mi meraviglio! — rispose il burattino
quasi offeso; — per vostra regola io non ho fatto mai il somaro: io non ho mai
tirato il carretto!
— Meglio per te! — rispose il carbonaio. —
Allora, ragazzo mio, se ti senti davvero morir dalla fame, mangia due belle
fette della tua superbia, e bada di non prendere un’indigestione. —
Dopo pochi minuti passò per la via un muratore,
che portava sulle spalle un corbello di calcina.
— Fareste, galantuomo, la carità d’un soldo
a un povero ragazzo, che sbadiglia dall’appetito?
— Volentieri; vieni con me a portar calcina
— rispose il muratore — e invece d’un soldo, te ne darò cinque.
— Ma la calcina è pesa — replicò Pinocchio —
e io non voglio durar fatica.
— Se non vuoi durar fatica, allora, ragazzo
mio, divertiti a sbadigliare, e buon pro ti faccia. —
In men di mezz’ora passarono altre venti persone:
e a tutte Pinocchio chiese un po’ d’elemosina, ma tutte gli risposero:
— Non ti vergogni? Invece di fare il
bighellone per la strada, va’ piuttosto a cercarti un po’ di lavoro, e impara a
guadagnarti il pane! —
Finalmente passò una buona donnina che portava
due brocche d’acqua.
— Vi contentate, buona donna, che io beva
una sorsata d’acqua dalla vostra brocca? — disse Pinocchio, che bruciava
dall’arsione della sete.
— Bevi pure, ragazzo mio! — disse la
donnina, posando le due brocche in terra.
Quando Pinocchio ebbe bevuto come una spugna, borbottò
a mezza voce, asciugandosi la bocca:
— La sete me la son levata! Cosí mi potessi
levar la fame!... —
La buona donnina, sentendo queste parole,
soggiunse subito:
— Se mi aiuti a portare a casa una di queste
brocche d’acqua, ti darò un bel pezzo di pane. —
Pinocchio guardò la brocca e non rispose né sí né
no.
— E insieme col pane ti darò un bel piatto
di cavolfiore condito coll’olio e coll’aceto — soggiunse la buona donna.
Pinocchio dètte un’altra occhiata alla brocca, e
non rispose né sí né no.
— E dopo il cavolfiore ti darò un bel
confetto ripieno di rosolio. —
Alle seduzioni di quest’ultima ghiottoneria,
Pinocchio non seppe piú resistere, e fatto un animo risoluto, disse:
— Pazienza! vi porterò la brocca fino a
casa! —
La brocca era molto pesa, e il burattino, non
avendo forza da portarla colle mani, si rassegnò a portarla in capo.
Arrivati a casa, la buona donnina fece sedere
Pinocchio a una piccola tavola apparecchiata, e gli pose davanti il pane, il
cavolfiore condito e il confetto.
Pinocchio non mangiò, ma diluviò. Il suo stomaco
pareva un quartiere rimasto vuoto e disabitato da cinque mesi.
Calmati a poco a poco i morsi rabbiosi della
fame, allora alzò il capo per ringraziare la sua benefattrice: ma non aveva
ancora finito di fissarla in volto, che cacciò un lunghissimo ohhh! di
maraviglia, e rimase là incantato, cogli occhi spalancati, colla forchetta per
aria e colla bocca piena di pane e di cavolfiore.
— Che cos’è mai tutta questa meraviglia? —
disse ridendo la buona donna.
— Egli è... — rispose balbettando Pinocchio
— egli è... egli è..., che voi mi somigliate... voi mi rammentate... sí, sí,
sí, la stessa voce... gli stessi occhi... gli stessi capelli... sí, sí, sí...
anche voi avete i capelli turchini... come lei!... O Fatina mia!... o Fatina mia!...
ditemi che siete voi, proprio voi!... Non mi fate piú piangere! Se sapeste! Ho
pianto tanto, ho patito tanto!... —
E nel dir cosí, Pinocchio piangeva dirottamente,
e gettatosi ginocchioni per terra, abbracciava i ginocchi di quella donnina
misteriosa.
XXV
Pinocchio
promette alla Fata di esser buono e di studiare,
perché è
stufo di fare il burattino e vuol diventare un bravo ragazzo.
In sulle prime, la buona donnina cominciò col dire
che lei non era la piccola Fata dai capelli turchini: ma poi, vedendosi oramai
scoperta e non volendo mandare piú in lungo la commedia, finí per farsi
riconoscere, e disse a Pinocchio:
— Birba d’un burattino! Come mai ti sei
accorto che ero io?
— Gli è il gran bene che vi voglio, quello
che me l’ha detto.
— Ti ricordi, eh? Mi lasciasti bambina, e
ora mi ritrovi donna; tanto donna, che potrei quasi farti da mamma.
— E io l’ho caro dimolto, perché cosí,
invece di sorellina, vi chiamerò la mia mamma. Gli è tanto tempo che mi struggo
di avere una mamma come tutti gli altri ragazzi!... Ma come avete fatto a
crescere cosí presto?
— È un segreto.
— Insegnatemelo: vorrei crescere un poco
anch’io. Non lo vedete? Sono sempre rimasto alto come un soldo di cacio.
— Ma tu non puoi crescere — replicò la Fata.
— Perché?
— Perché i burattini non crescono mai.
Nascono burattini, vivono burattini e muoiono burattini.
— Oh! sono stufo di far sempre il burattino!
— gridò Pinocchio, dandosi uno scappellotto. — Sarebbe ora che diventassi
anch’io un uomo...
— E lo diventerai, se saprai meritarlo...
— Davvero? E che posso fare per meritarmelo?
— Una cosa facilissima: avvezzarti a essere
un ragazzino perbene.
— O che forse non sono?
— Tutt’altro! I ragazzi perbene sono
ubbidienti, e tu invece...
— E io non ubbidisco mai.
— I ragazzi perbene prendono amore allo
studio e al lavoro, e tu...
— E io, invece, faccio il bighellone e il
vagabondo tutto l’anno.
— I ragazzi perbene dicono sempre la
verità...
— E io sempre le bugie.
— I ragazzi perbene vanno volentieri alla
scuola...
— E a me la scuola mi fa venire i dolori di
corpo. Ma da oggi in poi voglio mutar vita.
— Me lo prometti?
— Lo prometto. Voglio diventare un ragazzino
perbene, e voglio essere la consolazione del mio babbo... Dove sarà il mio
povero babbo a quest’ora?
— Non lo so.
— Avrò mai la fortuna di poterlo rivedere e
abbracciare?
— Credo di sí: anzi ne sono sicura. —
A questa risposta fu tale e tanta la contentezza di
Pinocchio, che prese le mani alla Fata e cominciò a baciargliele con tanta
foga, che pareva quasi fuori di sé. Poi, alzando il viso e guardandola
amorosamente, le domandò:
— Dimmi, mammina: dunque non è vero che tu
sia morta?
— Par di no — rispose sorridendo la Fata.
— Se tu sapessi che dolore e che serratura
alla gola che provai, quando lessi qui giace...
— Lo so: ed è per questo che ti ho
perdonato. La sincerità del tuo dolore mi fece conoscere che tu avevi il cuore
buono: e dai ragazzi buoni di cuore, anche se sono un po’ monelli e avvezzati
male, c’è sempre da sperar qualcosa: ossia, c’è sempre da sperare che rientrino
sulla vera strada. Ecco perché son venuta a cercarti fin qui. Io sarò la tua
mamma...
— Oh! che bella cosa! — gridò Pinocchio
saltando dall’allegrezza.
— Tu mi ubbidirai e farai sempre quello che
ti dirò io.
— Volentieri, volentieri, volentieri!
— Fino da domani — soggiunse la Fata — tu
comincerai coll’andare a scuola. —
Pinocchio diventò subito un po’ meno allegro.
— Poi sceglierai a tuo piacere un’arte o un
mestiere... —
Pinocchio diventò serio.
— Che cosa brontoli fra i denti? — domandò
la Fata con accento risentito.
— Dicevo... — mugolò il burattino a mezza
voce — che oramai per andare a scuola mi pare un po’ tardi...
— Nossignore. Tieni a mente che per
istruirsi e per imparare non è mai tardi.
— Ma io non voglio fare né arti né
mestieri...
— Perché?
— Perché a lavorare mi par fatica.
— Ragazzo mio, — disse la Fata — quelli che
dicono cosí, finiscono quasi sempre o in carcere o allo spedale. L’uomo, per
tua regola, nasca ricco o povero, è obbligato in questo mondo a far qualcosa, a
occuparsi, a lavorare. Guai a lasciarsi prendere dall’ozio! L’ozio è una
bruttissima malattia e bisogna guarirla subito, fin da bambini: se no, quando
siamo grandi, non si guarisce piú. —
Queste parole toccarono l’animo di Pinocchio, il
quale rialzando vivacemente la testa, disse alla Fata:
— Io studierò, io lavorerò, io farò tutto
quello che mi dirai, perché, insomma, la vita del burattino mi è venuta a noia,
e voglio diventare un ragazzo a tutti i costi. Me l’hai promesso, non è vero?
— Te l’ho promesso, e ora dipende da
te. —
XXVI
Pinocchio
va co’ suoi compagni di scuola in riva al mare,
per
vedere il terribile Pesce-cane.
Il giorno dopo Pinocchio andò alla Scuola
comunale.
Figuratevi quelle birbe di ragazzi, quando videro
entrare nella loro scuola un burattino! Fu una risata, che non finiva piú. Chi
gli faceva uno scherzo, chi un altro: chi gli levava il berretto di mano: chi
gli tirava il giubbettino di dietro; chi si provava a fargli coll’inchiostro
due grandi baffi sotto il naso, e chi si attentava perfino a legargli dei fili
ai piedi e alle mani, per farlo ballare.
Per un poco Pinocchio usò disinvoltura e tirò
via; ma finalmente, sentendosi scappar la pazienza, si rivolse a quelli che piú
lo tafanavano e si pigliavano gioco di lui, e disse loro a muso duro:
— Badate, ragazzi: io non son venuto qui per
essere il vostro buffone. Io rispetto gli altri e voglio esser rispettato.
— Bravo berlicche! Hai parlato come un libro
stampato! — urlarono quei monelli, buttandosi via dalle matte risate: e uno di
loro, piú impertinente degli altri, allungò la mano coll’idea di prendere il
burattino per la punta del naso.
Ma non fece a tempo: perché Pinocchio stese la
gamba sotto la tavola e gli consegnò una pedata negli stinchi.
— Ohi! che piedi duri! — urlò il ragazzo
stropicciandosi il livido che gli aveva fatto il burattino.
— E che gomiti!... anche piú duri dei piedi!
— disse un altro che, per i suoi scherzi sguaiati, s’era beccata una gomitata
nello stomaco.
Fatto sta che dopo quel calcio e quella gomitata,
Pinocchio acquistò subito la stima e la simpatia di tutti i ragazzi di scuola:
e tutti gli facevano mille carezze e tutti gli volevano un ben dell’anima.
E anche il maestro se ne lodava, perché lo vedeva
attento, studioso, intelligente, sempre il primo a entrare nella scuola, sempre
l’ultimo a rizzarsi in piedi, a scuola finita.
Il solo difetto che avesse era quello di
bazzicare troppi compagni: e fra questi, c’erano molti monelli conosciutissimi
per la loro poca voglia di studiare e di farsi onore.
Il maestro lo avvertiva tutti i giorni, e anche
la buona Fata non mancava di dirgli e di ripetergli piú volte:
— Bada, Pinocchio! Quei tuoi compagnacci di
scuola finiranno prima o poi col farti perdere l’amore allo studio e, forse
forse, col tirarti addosso qualche grossa disgrazia.
— Non c’è pericolo! — rispondeva il
burattino, facendo una spallucciata, e toccandosi coll’indice in mezzo alla
fronte, come per dire: «C’è tanto giudizio qui dentro!»
Ora avvenne che un bel giorno, mentre camminava
verso la scuola, incontrò un branco dei soliti compagni, che, andandogli
incontro, gli dissero:
— Sai la gran notizia?
— No.
— Qui nel mare vicino è arrivato un
Pesce-cane, grosso come una montagna.
— Davvero?... Che sia quel medesimo
Pesce-cane di quando affogò il mio povero babbo?
— Noi andiamo alla spiaggia per vederlo.
Vuoi venire anche tu?
— Io no: io voglio andare a scuola.
— Che t’importa della scuola? Alla scuola ci
anderemo domani. Con una lezione di piú o con una di meno, si rimane sempre gli
stessi somari.
— E il maestro che dirà?
— Il maestro si lascia dire. È pagato
apposta per brontolare tutti i giorni.
— E la mia mamma?
— Le mamme non sanno mai nulla — risposero
quei malanni.
— Sapete che cosa farò? — disse Pinocchio. —
Il Pesce-cane voglio vederlo per certe mie ragioni... ma anderò a vederlo dopo
la scuola.
— Povero giucco! — ribatté uno del branco. —
Che credi che un pesce di quella grossezza voglia star lí a fare il comodo tuo?
Appena s’è annoiato, piglia il dirizzone per un’altra parte, e allora chi s’è
visto s’è visto.
— Quanto tempo ci vuole di qui alla
spiaggia? — domandò il burattino.
— Fra un’ora, siamo bell’e andati e tornati.
— Dunque, via! e chi piú corre, è piú bravo!
— gridò Pinocchio.
Dato cosí il segnale della partenza, quel branco
di monelli, coi loro libri e i loro quaderni sotto il braccio, si messero a
correre attraverso ai campi: e Pinocchio era sempre avanti a tutti: pareva che
avesse le ali ai piedi.
Di tanto in tanto, voltandosi indietro, canzonava
i suoi compagni rimasti a una bella distanza, e nel vederli ansanti, trafelati,
polverosi e con tanto di lingua fuori, se la rideva proprio di cuore. Lo
sciagurato, in quel momento, non sapeva a quali paure e a quali orribili
disgrazie andava incontro!...
XXVII
Gran
combattimento fra Pinocchio e i suoi compagni: uno de’ quali
essendo
rimasto ferito, Pinocchio viene arrestato dai carabinieri.
Giunto che fu sulla spiaggia, Pinocchio dètte
subito una grande occhiata sul mare; ma non vide nessun Pesce-cane. Il mare era
tutto liscio come un gran cristallo da specchio.
— O il Pesce-cane dov’è? — domandò,
voltandosi ai compagni.
— Sarà andato a far colazione — rispose uno
di loro, ridendo.
— O si sarà buttato sul letto per fare un
sonnellino — aggiunse un altro, ridendo piú forte che mai.
Da quelle risposte sconclusionate e da quelle
risatacce grulle, Pinocchio capí che i suoi compagni gli avevano fatto una
brutta celia, dandogli ad intendere una cosa che non era vera, e pigliandosela
a male, disse loro con voce di bizza:
— E ora? che sugo ci avete trovato a darmi
ad intendere la storiella del Pesce-cane?
— Il sugo c’è sicuro!... — risposero in coro
quei monelli.
— E sarebbe?
— Quello di farti perdere la scuola e di
farti venire con noi. Non ti vergogni a mostrarti tutti i giorni cosí preciso e
cosí diligente alla lezione? Non ti vergogni a studiar tanto, come fai?
— E se io studio, che cosa ve ne importa?
— A noi ce ne importa moltissimo, perché ci
costringi a fare una brutta figura col maestro...
— Perché?
— Perché gli scolari che studiano, fanno
sempre scomparire quelli, come noi, che non hanno voglia di studiare. E noi non
vogliamo scomparire! Anche noi abbiamo il nostro amor proprio!...
— E allora che cosa devo fare per
contentarvi?
— Devi prendere a noia, anche tu, la scuola,
la lezione e il maestro, che sono i nostri tre grandi nemici.
— E se io volessi seguitare a studiare?
— Noi non ti guarderemo piú in faccia, e
alla prima occasione ce la pagherai!...
— In verità mi fate quasi ridere — disse il
burattino con una scrollatina di capo.
— Ehi, Pinocchio! — gridò allora il piú
grande di quei ragazzi, andandogli sul viso. — Non venir qui a fare lo
smargiasso: non venir qui a far tanto il galletto!... perché se tu non hai
paura di noi, neanche noi abbiamo paura di te! Ricordati che tu sei solo e noi
siamo sette.
— Sette come i peccati mortali — disse
Pinocchio con una gran risata.
— Avete sentito? Ci ha insultati tutti! Ci
ha chiamato col nome di peccati mortali!...
— Pinocchio! chiedici scusa dell’offesa... o
se no, guai a te!...
— Cucú! — fece il burattino, battendosi
coll’indice sulla punta del naso, in segno di canzonatura.
— Pinocchio! la finisce male!...
— Cucú!
— Ne toccherai quanto un somaro!...
— Cucú!
— Ritornerai a casa col naso rotto!...
— Cucú!
— Ora il cucú te lo darò io! — gridò il piú
ardito di quei monelli. — Prendi intanto quest’acconto, e serbalo per la cena
di stasera. —
E nel dir cosí gli appiccicò un pugno nel capo.
Ma fu, come si suol dire, botta e risposta;
perché il burattino, com’era da aspettarselo, rispose subito con un altro
pugno: e lí, da un momento all’altro, il combattimento diventò generale e
accanito.
Pinocchio, sebbene fosse solo, si difendeva come
un eroe. Con quei suoi piedi di legno durissimo lavorava cosí bene, da tener
sempre i suoi nemici a rispettosa distanza. Dove i suoi piedi potevano arrivare
e toccare, ci lasciavano sempre un livido per ricordo.
Allora i ragazzi, indispettiti di non potersi
misurare col burattino a corpo a corpo, pensarono bene di metter mano ai
proiettili; e sciolti i fagotti de’ loro libri di scuola, cominciarono a
scagliare contro di lui i Sillabari, le Grammatiche, i Giannettini, i
Minuzzoli, i Racconti del Thouar, il Pulcino della Baccini e altri libri
scolastici: ma il burattino, che era d’occhio svelto e ammalizzito, faceva
sempre civetta a tempo, sicché i volumi, passandogli di sopra al capo, andavano
tutti a cascare nel mare.
Figuratevi i pesci! I pesci, credendo che quei
libri fossero roba da mangiare, correvano a frotte a fior d’acqua; ma dopo
avere abboccata qualche pagina o qualche frontespizio, la risputavano subito,
facendo con la bocca una certa smorfia, che pareva volesse dire: «Non è roba
per noi: noi siamo avvezzi a cibarci molto meglio!»
Intanto il combattimento s’inferociva sempre piú,
quand’ecco che un grosso Granchio, che era uscito fuori dall’acqua e s’era
adagio adagio arrampicato fin sulla spiaggia, gridò con una vociaccia di
trombone infreddato:
— Smettetela, birichini che non siete altro!
Queste guerre manesche fra ragazzi e ragazzi raramente vanno a finir bene.
Qualche disgrazia accade sempre!... —
Povero Granchio! Fu lo stesso che avesse
predicato al vento. Anzi quella birba di Pinocchio, voltandosi indietro a
guardarlo in cagnesco, gli disse sgarbatamente:
— Chetati, Granchio dell’uggia! Faresti
meglio a succiare due pasticche di lichene per guarire da codesta infreddatura
di gola. Va’ piuttosto a letto e cerca di sudare!... —
In quel frattempo i ragazzi, che avevano finito
oramai di tirare tutti i loro libri, occhiarono lí a poca distanza il fagotto
dei libri del burattino, e se ne impadronirono in men che non si dice.
Fra questi libri, v’era un volume rilegato in
cartoncino grosso, colla costola e colle punte di cartapecora. Era un Trattato
di Aritmetica. Vi lascio immaginare se era peso di molto!
Uno di quei monelli agguantò quel volume, e presa
di mira la testa di Pinocchio, lo scagliò con quanta forza aveva nel braccio:
ma invece di cogliere il burattino, colse nella testa uno dei compagni; il
quale diventò bianco come un panno lavato, e non disse altro che queste parole:
— O mamma mia, aiutatemi... perché
muoio!... —
Poi cadde disteso sulla rena del lido.
Alla vista di quel morticino, i ragazzi
spaventati si dettero a scappare a gambe, e in pochi minuti non si videro piú.
Ma Pinocchio rimase lí; e sebbene per il dolore e
per lo spavento, anche lui fosse piú morto che vivo, nondimeno corse a inzuppare
il suo fazzoletto nell’acqua del mare e si pose a bagnare la tempia del suo
povero compagno di scuola. E intanto piangendo dirottamente e disperandosi, lo
chiamava per nome e gli diceva:
— Eugenio!... povero Eugenio mio!... apri
gli occhi, e guardami!... Perché non mi rispondi? Non sono stato io, sai, che
ti ho fatto tanto male! Credilo, non sono stato io!... Apri gli occhi,
Eugenio... Se tieni gli occhi chiusi, mi farai morire anche me... O Dio mio!
come farò ora a tornare a casa?... Con che coraggio potrò presentarmi alla mia
buona mamma? Che sarà di me?... Dove fuggirò?... Dove anderò a nascondermi?...
Oh! quant’era meglio, mille volte meglio che fossi andato a scuola!... Perché
ho dato retta a questi compagni, che sono la mia dannazione?... E il maestro me
l’aveva detto!... e la mia mamma me l’aveva ripetuto: — Guardati dai cattivi
compagni! — Ma io sono un testardo... un caparbiaccio... lascio dir tutti, e
poi fo sempre a modo mio! E dopo mi tocca a scontarle... E cosí, da che sono al
mondo, non ho mai avuto un quarto d’ora di bene. Dio mio! Che sarà di me, che
sarà di me, che sarà di me? —
E Pinocchio continuava a piangere, a berciare, a
darsi dei pugni nel capo e a chiamar per nome il povero Eugenio, quando sentí a
un tratto un rumore sordo di passi che si avvicinavano.
Si voltò: erano due carabinieri.
— Che cosa fai costí sdraiato per terra? —
domandarono a Pinocchio.
— Assisto questo mio compagno di scuola.
— Che gli è venuto male?
— Par di sí!...
— Altro che male! — disse uno dei
carabinieri, chinandosi e osservando Eugenio da vicino. — Questo ragazzo è
stato ferito in una tempia: chi è che l’ha ferito?
— Io no! — balbettò il burattino che non
aveva piú fiato in corpo.
— Se non sei stato tu, chi è stato dunque
che l’ha ferito?
— Io no! — ripeté Pinocchio.
— E con che cosa è stato ferito?
— Con questo libro. — E il burattino
raccattò di terra il Trattato di Aritmetica, rilegato in cartone e cartapecora,
per mostrarlo al carabiniere.
— E questo libro di chi è?
— Mio.
— Basta cosí: non occorre altro. Rizzati
subito, e vien via con noi.
— Ma io...
— Via con noi!...
— Ma io sono innocente...
— Via con noi! —
Prima di partire, i carabinieri chiamarono alcuni
pescatori, che in quel momento passavano per l’appunto colla loro barca vicino
alla spiaggia, e dissero loro:
— Vi affidiamo questo ragazzetto ferito nel
capo. Portatelo a casa vostra e assistetelo. Domani torneremo a vederlo. —
Quindi si volsero a Pinocchio e dopo averlo messo
in mezzo a loro due, gl’intimarono con accento soldatesco:
— Avanti! e cammina spedito! se no, peggio
per te! —
Senza farselo ripetere, il burattino cominciò a
camminare per quella viottola, che conduceva al paese. Ma il povero diavolo non
sapeva piú nemmeno lui in che mondo si fosse. Gli pareva di sognare, e che
brutto sogno! Era fuori di sé. I suoi occhi vedevano tutto doppio: le gambe gli
tremavano: la lingua gli era rimasta attaccata al palato e non poteva piú
spiccicare una sola parola. Eppure, in mezzo a quella specie di stupidità e di
rintontimento, una spina acutissima gli bucava il cuore: il pensiero, cioè, di
dover passare sotto le finestre di casa della sua buona Fata, in mezzo ai
carabinieri. Avrebbe preferito piuttosto di morire.
Erano già arrivati e stavano per entrare in
paese, quando una folata di vento strapazzone levò di testa a Pinocchio il
berretto, portandoglielo lontano una diecina di passi.
— Si contentano — disse il burattino ai
carabinieri — che vada a riprendere il mio berretto?
— Vai pure; ma facciamo una cosa
lesta. —
Il burattino andò, raccattò il berretto... ma
invece di metterselo in capo, se lo mise in bocca fra i denti, e poi cominciò a
correre di gran carriera verso la spiaggia del mare. Andava via come una palla
di fucile.
I carabinieri, giudicando che fosse difficile
raggiungerlo, gli aizzarono dietro un grosso cane mastino, che aveva guadagnato
il primo premio a tutte le corse dei cani. Pinocchio correva, e il cane correva
piú di lui: per cui tutta la gente si affacciava alle finestre e si affollava
in mezzo alla strada, ansiosa di veder la fine di un palio cosí inferocito. Ma
non poté levarsi questa voglia, perché fra il can mastino e Pinocchio
sollevarono lungo la strada un tal polverone, che dopo pochi minuti non era
possibile di veder piú nulla.
XXVIII
Pinocchio
corre pericolo di esser fritto in padella, come un pesce.
Durante quella corsa disperata, vi fu un momento
terribile, un momento in cui Pinocchio si credé perduto: perché bisogna sapere
che Alidoro (era questo il nome del can mastino) a furia di correre e correre,
l’aveva quasi raggiunto.
Basti dire che il burattino sentiva dietro di sé,
alla distanza d’un palmo, l’ansare affannoso di quella bestiaccia, e ne sentiva
perfino la vampa calda delle fiatate.
Per buona fortuna la spiaggia era oramai vicina e
il mare si vedeva lí a pochi passi.
Appena fu sulla spiaggia, il burattino spiccò un
bellissimo salto, come avrebbe potuto fare un ranocchio, e andò a cascare in
mezzo all’acqua. Alidoro invece voleva fermarsi; ma trasportato dall’impeto
della corsa, entrò nell’acqua anche lui. E quel disgraziato non sapeva nuotare;
per cui cominciò subito ad annaspare colle zampe per reggersi a galla: ma piú
annaspava e piú andava col capo sott’acqua.
Quando tornò a rimettere il capo fuori, il povero
cane aveva gli occhi impauriti e stralunati, e, abbaiando, gridava:
— Affogo! affogo!
— Crepa! — gli rispose Pinocchio da lontano,
il quale si vedeva oramai sicuro da ogni pericolo.
— Aiutami, Pinocchio mio!... salvami dalla
morte!... —
A quelle grida strazianti il burattino, che in
fondo aveva un cuore eccellente, si mosse a compassione, e voltosi al cane gli
disse:
— Ma se io ti aiuto a salvarti, mi prometti
di non darmi piú noia e di non corrermi dietro?
— Te lo prometto! te lo prometto! Spicciati
per carità, perché se indugi un altro mezzo minuto, son bell’e morto. —
Pinocchio esitò un poco: ma poi ricordandosi che
il suo babbo gli aveva detto tante volte che a fare una buona azione non ci si
scapita mai, andò nuotando a raggiungere Alidoro, e, presolo per la coda con
tutte e due le mani, lo portò sano e salvo sulla rena asciutta del lido.
Il povero cane non si reggeva piú in piedi. Aveva
bevuto, senza volerlo, tant’acqua salata, che era gonfiato come un pallone. Per
altro il burattino, non volendo fare a fidarsi troppo, stimò cosa prudente di
gettarsi novamente in mare; e allontanandosi dalla spiaggia, gridò all’amico
salvato:
— Addio, Alidoro; fa’ buon viaggio e tanti
saluti a casa.
— Addio, Pinocchio — rispose il cane; —
mille grazie di avermi liberato dalla morte. Tu m’hai fatto un gran servizio: e
in questo mondo quel che è fatto è reso. Se capita l’occasione, ci
riparleremo... —
Pinocchio seguitò a nuotare, tenendosi sempre
vicino alla terra. Finalmente gli parve di esser giunto in un luogo sicuro; e
dando un’occhiata alla spiaggia, vide sugli scogli una specie di grotta, dalla
quale usciva un lunghissimo pennacchio di fumo.
— In quella grotta — disse allora fra sé —
ci deve essere del fuoco. Tanto meglio! Anderò a rasciugarmi e a riscaldarmi, e
poi?... e poi sarà quel che sarà. —
Presa questa risoluzione, si avvicinò alla
scogliera; ma quando fu lí per arrampicarsi, sentí qualche cosa sotto l’acqua
che saliva, saliva, saliva e lo portava per aria. Tentò subito di fuggire, ma
oramai era tardi, perché con sua grandissima maraviglia si trovò rinchiuso
dentro una grossa rete in mezzo a un brulichío di pesci d’ogni forma e
grandezza, che scodinzolavano e si dibattevano come tante anime disperate.
E nel tempo stesso vide uscire dalla grotta un
pescatore cosí brutto, ma tanto brutto, che pareva un mostro marino. Invece di
capelli aveva sulla testa un cespuglio foltissimo di erba verde; verde era la
pelle del suo corpo, verdi gli occhi, verde la barba lunghissima, che gli
scendeva fin quaggiú. Pareva un grosso ramarro ritto sui piedi di dietro.
Quando il pescatore ebbe tirata fuori la rete dal
mare, gridò tutto contento:
— Provvidenza benedetta! Anch’oggi potrò
fare una bella scorpacciata di pesce!
— Manco male, che io non sono un pesce! —
disse Pinocchio dentro di sé, ripigliando un po’ di coraggio.
La rete piena di pesci fu portata dentro la
grotta, una grotta buia e affumicata, in mezzo alla quale friggeva una gran
padella d’olio, che mandava un odorino di moccolaia, da mozzare il respiro.
— Ora vediamo un po’ che pesci abbiamo presi!
— disse il pescatore verde; e ficcando nella rete una manona cosí spropositata,
che pareva una pala da fornai, tirò fuori una manciata di triglie.
— Buone queste triglie! — disse, guardandole
e annusandole con compiacenza. E dopo averle annusate, le scaraventò in una
conca senz’acqua.
Poi ripeté piú volte la solita operazione; e via
via che cavava fuori gli altri pesci, sentiva venirsi l’acquolina in bocca e
gongolando diceva:
— Buoni questi naselli!...
— Squisiti questi muggini!...
— Deliziose queste sogliole!...
— Prelibati questi ragnotti!...
— Carine queste acciughe col capo!... —
Come potete immaginarvelo, i naselli, i muggini,
le sogliole, i ragnotti e l’acciughe, andarono tutti alla rinfusa nella conca,
a tener compagnia alle triglie.
L’ultimo che restò nella rete fu Pinocchio.
Appena il pescatore l’ebbe cavato fuori, sgranò
dalla maraviglia i suoi occhioni verdi, gridando quasi impaurito:
— Che razza di pesce è questo? Dei pesci
fatti a questo modo non mi ricordo di averne mangiati mai! —
E tornò a guardarlo attentamente, e dopo averlo
guardato ben bene per ogni verso, finí col dire:
— Ho capito: dev’essere un granchio di
mare. —
Allora Pinocchio, mortificato di sentirsi
scambiare per un granchio, disse con accento risentito:
— Ma che granchio e non granchio? Guardi
come lei mi tratta! Io per sua regola sono un burattino.
— Un burattino? — replicò il pescatore. —
Dico la verità, il pesce burattino è per me un pesce nuovo! Meglio cosí! ti
mangerò piú volentieri.
— Mangiarmi? ma la vuol capire che io non
sono un pesce? O non sente che parlo, e ragiono come lei?
— È verissimo — soggiunse il pescatore — e
siccome vedo che sei un pesce, che hai la fortuna di parlare e di ragionare,
come me, cosí voglio usarti anch’io i dovuti riguardi.
— E questi riguardi sarebbero?...
— In segno di amicizia e di stima
particolare, lascerò a te la scelta del come vuoi esser cucinato. Desideri
esser fritto in padella, oppure preferisci di esser cotto nel tegame con la
salsa di pomidoro?
— A dir la verità — rispose Pinocchio — se
io debbo scegliere, preferisco piuttosto di esser lasciato libero, per
potermene tornare a casa mia.
— Tu scherzi! Ti pare che io voglia perdere
l’occasione di assaggiare un pesce cosí raro? Non capita mica tutti i giorni un
pesce burattino in questi mari. Lascia fare a me: ti friggerò in padella
assieme a tutti gli altri pesci, e te ne troverai contento. L’esser fritto in
compagnia è sempre una consolazione. —
L’infelice Pinocchio, a quest’antifona, cominciò
a piangere, a strillare, a raccomandarsi: e piangendo diceva: — Quant’era
meglio, che fossi andato a scuola!... Ho voluto dar retta ai compagni, e ora la
pago! Ih!... Ih!... Ih!... —
E perché si divincolava come un’anguilla e faceva
sforzi incredibili, per isgusciare dalle grinfie del pescatore verde, questi
prese una bella buccia di giunco, e dopo averlo legato per le mani e per i
piedi, come un salame, lo gettò in fondo alla conca cogli altri.
Poi, tirato fuori un vassoiaccio di legno, pieno
di farina, si dètte a infarinare tutti quei pesci: e man mano che gli aveva
infarinati, li buttava a friggere dentro la padella.
I primi a ballare nell’olio bollente furono i
poveri naselli: poi toccò ai ragnotti, poi ai muggini, poi alle sogliole e alle
acciughe, e poi venne la volta di Pinocchio. Il quale, a vedersi cosí vicino
alla morte (e che brutta morte!) fu preso da tanto tremito e da tanto spavento,
che non aveva piú né voce né fiato per raccomandarsi.
Il povero figliuolo si raccomandava cogli occhi!
Ma il pescatore verde, senza badarlo neppure, lo avvoltolò cinque o sei volte
nella farina, infarinandolo cosí bene dal capo ai piedi, che pareva diventato
un burattino di gesso.
Poi lo prese per il capo, e...
XXIX
Ritorna
a casa della Fata, la quale gli promette che il giorno dopo
non sarà
piú un burattino, ma diventerà un ragazzo. Gran colazione di caffè-e-latte per
festeggiare questo grande avvenimento.
Mentre il pescatore era proprio sul punto di
buttar Pinocchio nella padella, entrò nella grotta un grosso cane condotto là
dall’odore acutissimo e ghiotto della frittura.
— Passa via! — gli gridò il pescatore
minacciandolo e tenendo sempre in mano il burattino infarinato.
Ma il povero cane aveva una fame per quattro, e
mugolando e dimenando la coda, pareva che dicesse:
— Dammi un boccone di frittura e ti lascio
in pace.
— Passa via, ti dico! — gli ripeté il
pescatore; e allungò la gamba per tirargli una pedata.
Allora il cane che, quando aveva fame davvero,
non era avvezzo a lasciarsi posar mosche sul naso, si rivoltò ringhioso al
pescatore, mostrandogli le sue terribili zanne.
In quel mentre si udí nella grotta una vocina
fioca fioca che disse:
— Salvami, Alidoro! Se non mi salvi, son
fritto!... —
Il cane riconobbe subito la voce di Pinocchio, e
si accòrse con sua grandissima maraviglia che la vocina era uscita da quel
fagotto infarinato che il pescatore teneva in mano.
Allora che cosa fa? Spicca un gran lancio da
terra, abbocca quel fagotto infarinato e tenendolo leggermente coi denti, esce
correndo dalla grotta, e via come un baleno!
Il pescatore, arrabbiatissimo di vedersi strappar
di mano un pesce, che egli avrebbe mangiato tanto volentieri, si provò a
rincorrere il cane; ma fatti pochi passi, gli venne un nodo di tosse e dové
tornarsene indietro.
Intanto Alidoro, ritrovata che ebbe la viottola
che conduceva al paese, si fermò e posò delicatamente in terra l’amico
Pinocchio.
— Quanto ti debbo ringraziare! — disse il
burattino.
— Non c’è bisogno — replicò il cane — tu
salvasti me, e quel che è fatto è reso. Si sa: in questo mondo bisogna tutti
aiutarsi l’uno coll’altro.
— Ma come mai sei capitato in quella grotta?
— Ero sempre qui disteso sulla spiaggia piú
morto che vivo, quando il vento mi ha portato da lontano un odorino di
frittura. Quell’odorino mi ha stuzzicato l’appetito, e io gli sono andato
dietro. Se arrivavo un minuto piú tardi!...
— Non me lo dire! — urlò Pinocchio che
tremava ancora dalla paura — Non me lo dire! Se tu arrivavi un minuto piú
tardi, a quest’ora io ero bell’e fritto, mangiato e digerito. Brrr! mi vengono
i brividi soltanto a pensarvi!... —
Alidoro, ridendo, stese la zampa destra verso il
burattino, il quale gliela strinse forte forte in segno di grande amicizia: e
dopo si lasciarono.
Il cane riprese la strada di casa: e Pinocchio,
rimasto solo, andò a una capanna lí poco distante, e domandò a un vecchietto
che stava sulla porta a scaldarsi al sole:
— Dite, galantuomo, sapete nulla di un
povero ragazzo ferito nel capo e che si chiamava Eugenio?
— Il ragazzo è stato portato da alcuni
pescatori in questa capanna, e ora...
— Ora sarà morto!... — interruppe Pinocchio,
con gran dolore.
— No: ora è vivo, ed è già ritornato a casa
sua.
— Davvero?... davvero?... — gridò il
burattino, saltando dall’allegrezza — Dunque la ferita non era grave?...
— Ma poteva riuscire gravissima e anche
mortale, — rispose il vecchietto — perché gli tirarono nel capo un grosso libro
rilegato in cartone.
— E chi glielo tirò?
— Un suo compagno di scuola: un certo
Pinocchio...
— E chi è questo Pinocchio? — domandò il
burattino facendo lo gnorri.
— Dicono che sia un ragazzaccio, un
vagabondo, un vero rompicollo...
— Calunnie! Tutte calunnie!
— Lo conosci tu questo Pinocchio?
— Di vista! — rispose il burattino.
— E tu che concetto ne hai? — gli chiese il
vecchietto.
— A me mi pare un gran buon figliuolo, pieno
di voglia di studiare, ubbidiente, affezionato al suo babbo e alla sua
famiglia... —
Mentre il burattino sfilava a faccia fresca tutte
queste bugie, si toccò il naso e si accòrse che il naso gli era allungato piú
d’un palmo. Allora tutto impaurito cominciò a gridare:
— Non date retta, galantuomo, a tutto il
bene che ve ne ho detto; perché conosco benissimo Pinocchio e posso assicurarvi
anch’io che è davvero un ragazzaccio, un disubbidiente e uno svogliato, che
invece di andare a scuola, va coi compagni a fare lo sbarazzino! —
Appena ebbe pronunziate queste parole, il suo
naso raccorcí e tornò della grandezza naturale, come era prima.
— E perché sei tutto bianco a codesto modo?
— gli domandò a un tratto il vecchietto.
— Vi dirò... senza avvedermene, mi sono
strofinato a un muro, che era imbiancato di fresco — rispose il burattino,
vergognandosi a raccontare che lo avevano infarinato come un pesce, per poi
friggerlo in padella.
— O della tua giacchetta, de’ tuoi
calzoncini e del tuo berretto, che cosa ne hai fatto?
— Ho incontrato i ladri e mi hanno
spogliato. Dite, buon vecchio, non avreste per caso da darmi un po’ di
vestituccio, tanto perché io possa ritornare a casa?
— Ragazzo mio; in quanto a vestiti, io non
ho che un piccolo sacchetto, dove ci tengo i lupini. Se lo vuoi, piglialo:
eccolo là. —
E Pinocchio non se lo fece dire due volte: prese
subito il sacchetto dei lupini che era vuoto, e dopo averci fatto colle forbici
una piccola buca nel fondo e due buche dalle parti, se lo infilò a uso camicia.
E vestito leggerino a quel modo, si avviò verso il paese.
Ma, lungo la strada, non si sentiva punto
tranquillo; tant’è vero che faceva un passo avanti e uno indietro e,
discorrendo da sé solo, andava dicendo:
— Come farò a presentarmi alla mia buona
Fatina? Che dirà quando mi vedrà?... Vorrà perdonarmi questa seconda
birichinata?... Scommetto che non me la perdona!... oh! non me la perdona di
certo... E mi sta il dovere: perché io sono un monello che prometto sempre di
correggermi, e non mantengo mai!... —
Arrivò al paese che era già notte buia; e perché
faceva tempaccio e l’acqua veniva giú a catinelle, andò diritto diritto alla
casa della Fata coll’animo risoluto di bussare alla porta e di farsi aprire.
Ma, quando fu lí, sentí mancarsi il coraggio, e
invece di bussare, si allontanò, correndo, una ventina di passi. Poi tornò una
seconda volta alla porta, e non concluse nulla: poi si avvicinò una terza
volta, e nulla: la quarta volta prese, tremando, il battente di ferro in mano e
bussò un piccolo colpettino.
Aspetta, aspetta, finalmente dopo mezz’ora si
aprí una finestra dell’ultimo piano (la casa era di quattro piani) e Pinocchio
vide affacciarsi una grossa lumaca, che aveva un lumicino acceso sul capo, la
quale disse:
— Chi è a quest’ora?
— La Fata è in casa? — domandò il burattino.
— La Fata dorme e non vuol essere svegliata:
ma tu chi sei?
— Sono io!
— Chi io?
— Pinocchio.
— Chi Pinocchio?
— Il burattino, quello che sta in casa colla
Fata.
— Ah! ho capito; — disse la Lumaca — aspettami
costí, ché ora scendo giú e ti apro subito.
— Spicciatevi, per carità, perché io muoio
dal freddo.
— Ragazzo mio, io sono una lumaca, e le
lumache non hanno mai fretta. —
Intanto passò un’ora, ne passarono due, e la
porta non si apriva: per cui Pinocchio, che tremava dal freddo, dalla paura e
dall’acqua che aveva addosso, si fece cuore e bussò una seconda volta, e bussò
piú forte.
A quel secondo colpo si aprí una finestra del
piano di sotto e si affacciò la solita lumaca.
— Lumachina bella — gridò Pinocchio dalla
strada — sono due ore che aspetto! E due ore, a questa serataccia, diventano
piú lunghe di due anni. Spicciatevi, per carità.
— Ragazzo mio, — gli rispose dalla finestra
quella bestiòla tutta pace e tutta flemma — ragazzo mio, io sono una lumaca, e
le lumache non hanno mai fretta. —
E la finestra si richiuse.
Di lí a poco sonò la mezzanotte: poi il tocco,
poi le due dopo mezzanotte, e la porta era sempre chiusa.
Allora Pinocchio, perduta la pazienza, afferrò
con rabbia il battente della porta per bussare un colpo da far rintronare tutto
il casamento: ma il battente che era di ferro, diventò a un tratto un’anguilla
viva, che sgusciandogli dalle mani sparí in un rigagnolo d’acqua che scorreva
in mezzo alla strada.
— Ah! sí? — gridò Pinocchio sempre piú
accecato dalla collera. — Se il battente è sparito, io seguiterò a bussare a
furia di calci. —
E tiratosi un poco indietro, lasciò andare una
solennissima pedata nell’uscio della casa. Il colpo fu cosí forte, che il piede
penetrò nel legno fino a mezzo: e quando il burattino si provò a ricavarlo
fuori, fu tutta fatica inutile: perché il piede c’era rimasto conficcato
dentro, come un chiodo ribadito.
Figuratevi il povero Pinocchio! Dové passare
tutto il resto della notte con un piede in terra e con quell’altro per aria.
La mattina, sul far del giorno, finalmente la
porta si aprí. Quella brava bestiòla della Lumaca, a scendere dal quarto piano
fino all’uscio di strada, ci aveva messo solamente nove ore. Bisogna proprio
dire che avesse fatto una sudata.
— Che cosa fate con codesto piede conficcato
nell’uscio? — domandò ridendo al burattino.
— È stata una disgrazia. Vedete un po’,
Lumachina bella, se vi riesce di liberarmi da questo supplizio.
— Ragazzo mio, costí ci vuole un legnaiolo,
e io non ho fatto mai la legnaiola.
— Pregate la Fata da parte mia!...
— La Fata dorme e non vuol essere svegliata.
— Ma che cosa volete che io faccia
inchiodato tutto il giorno a questa porta?
— Divertiti a contare le formicole che
passano per la strada.
— Portatemi almeno qualche cosa da mangiare,
perché mi sento rifinito.
— Subito! — disse la Lumaca.
Difatti dopo tre ore e mezzo, Pinocchio la vide
tornare con un vassoio d’argento in capo. Nel vassoio c’era un pane, un
pollastro arrosto e quattro albicocche mature.
— Ecco la colazione che vi manda la Fata —
disse la Lumaca.
Alla vista di quella grazia di Dio, il burattino
sentí consolarsi tutto. Ma quale fu il suo disinganno, quando incominciando a
mangiare, si dové accorgere che il pane era di gesso, il pollastro di cartone e
le quattro albicocche di alabastro, colorite, come se fossero vere.
Voleva piangere, voleva darsi alla disperazione,
voleva buttar via il vassoio e quel che c’era dentro; ma invece, o fosse il
gran dolore o la gran languidezza di stomaco, fatto sta che cadde svenuto.
Quando si riebbe, si trovò disteso sopra un sofà,
e la Fata era accanto a lui.
— Anche per questa volta ti perdono — gli
disse la Fata — ma guai a te, se me ne fai un’altra delle tue!...
Pinocchio promise e giurò che avrebbe studiato, e
che si sarebbe condotto sempre bene. E mantenne la parola per tutto il resto
dell’anno. Difatti agli esami delle vacanze, ebbe l’onore di essere il piú
bravo della scuola; e i suoi portamenti, in generale, furono giudicati cosí
lodevoli e soddisfacenti, che la Fata, tutta contenta, gli disse:
— Domani finalmente il tuo desiderio sarà
appagato!
— Cioè?
— Domani finirai di essere un burattino di
legno, e diventerai un ragazzo perbene. —
Chi non ha veduto la gioia di Pinocchio, a questa
notizia tanto sospirata, non potrà mai figurarsela. Tutti i suoi amici e
compagni di scuola dovevano essere invitati per il giorno dopo a una gran
colazione in casa della Fata, per festeggiare insieme il grande avvenimento: e
la Fata aveva fatto preparare dugento tazze di caffè-e-latte e quattrocento
panini imburrati di dentro e di fuori. Quella giornata prometteva di riuscire
molto bella e molto allegra: ma...
Disgraziatamente, nella vita dei burattini, c’è
sempre un ma, che sciupa ogni cosa.
XXX
Pinocchio,
invece di diventare un ragazzo,
parte di
nascosto col suo amico Lucignolo per il «Paese dei balocchi».
Com’è naturale, Pinocchio chiese subito alla Fata
il permesso di andare in giro per la città a fare gl’inviti: e la Fata gli
disse:
— Va’ pure a invitare i tuoi compagni per la
colazione di domani: ma ricordati di tornare a casa prima che faccia notte. Hai
capito?
— Fra un’ora prometto di esser bell’e
ritornato — replicò il burattino.
— Bada, Pinocchio! I ragazzi fanno presto a
promettere, ma il piú delle volte, fanno tardi a mantenere.
— Ma io non sono come gli altri: io, quando
dico una cosa, la mantengo.
— Vedremo. Caso poi tu disubbidissi, tanto
peggio per te.
— Perché?
— Perché i ragazzi che non dànno retta ai
consigli di chi ne sa piú di loro, vanno sempre incontro a qualche disgrazia.
— E io l’ho provato! — disse Pinocchio. — Ma
ora non ci ricasco piú!
— Vedremo se dici il vero. —
Senza aggiungere altre parole, il burattino
salutò la sua buona Fata, che era per lui una specie di mamma, e cantando e
ballando uscí fuori dalla porta di casa.
In poco piú d’un’ora, tutti i suoi amici furono
invitati. Alcuni accettarono subito e di gran cuore: altri, da principio, si
fecero un po’ pregare: ma quando seppero che i panini da inzuppare nel
caffè-e-latte sarebbero stati imburrati anche dalla parte di fuori, finirono
tutti col dire: — «Verremo anche noi, per farti piacere».
Ora bisogna sapere che Pinocchio, fra i suoi
amici e compagni di scuola, ne aveva uno prediletto e carissimo, il quale si chiamava
di nome Romeo: ma tutti lo chiamavano col soprannome di Lucignolo, per via del
suo personalino asciutto, secco e allampanato, tale e quale come il lucignolo
nuovo di un lumino da notte.
Lucignolo era il ragazzo piú svogliato e piú
birichino di tutta la scuola: ma Pinocchio gli voleva un bran bene. Difatti
andò subito a cercarlo a casa, per invitarlo alla colazione, e non lo trovò:
tornò una seconda volta, e Lucignolo non c’era: tornò una terza volta, e fece
la strada invano.
Dove poterlo ripescare? Cerca di qua, cerca di
là, finalmente lo vide nascosto sotto il portico di una casa di contadini.
— Che cosa fai costí? — gli domandò
Pinocchio, avvicinandosi.
— Aspetto [di] partire...
— Dove vai?
— Lontano, lontano, lontano!
— E io che son venuto a cercarti a casa tre
volte!...
— Che cosa volevi da me?
— Non sai il grande avvenimento? Non sai la
fortuna che mi è toccata?
— Quale?
— Domani finisco di essere un burattino e
divento un ragazzo come te, e come tutti gli altri.
— Buon pro ti faccia.
— Domani, dunque, ti aspetto a colazione a
casa mia.
— Ma se ti dico che parto questa sera.
— A che ora?
— Fra poco.
— E dove vai?
— Vado ad abitare in un paese... che è il
piú bel paese di questo mondo: una vera cuccagna!...
— E come si chiama?
— Si chiama il «Paese dei balocchi». Perché
non vieni anche tu?
— Io? no davvero!
— Hai torto, Pinocchio! Credilo a me che, se
non vieni, te ne pentirai. Dove vuoi trovare un paese piú sano per noialtri
ragazzi? Lí non vi sono scuole: lí non vi sono maestri: lí non vi sono libri.
In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedí non si fa scuola: e ogni
settimana è composta di sei giovedí e di una domenica. Figurati che le vacanze
dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono coll’ultimo di
dicembre. Ecco un paese, come piace veramente a me! Ecco come dovrebbero essere
tutti i paesi civili!...
— Ma come si passano le giornate nel «Paese
dei balocchi»?
— Si passano baloccandosi e divertendosi
dalla mattina alla sera. La sera poi si va a letto, e la mattina dopo si
ricomincia daccapo. Che te ne pare?
— Uhm!... — fece Pinocchio; e tentennò
leggermente il capo, come dire: — «È una vita che la farei volentieri anch’io!»
— Dunque, vuoi partire con me? Sí o no?
Risolviti.
— No, no, no e poi no. Oramai ho promesso
alla mia buona Fata di diventare un ragazzo per bene, e voglio mantenere la
promessa. Anzi, siccome vedo che il sole va sotto, cosí ti lascio subito e
scappo via. Dunque addio, e buon viaggio.
— Dove corri con tanta furia?
— A casa. La mia buona Fata vuole che ritorni
prima di notte.
— Aspetta altri due minuti.
— Faccio troppo tardi.
— Due minuti soli.
— E se poi la Fata mi grida?
— Lasciala gridare. Quando avrà gridato ben
bene, si cheterà — disse quella birba di Lucignolo.
— E come fai? Parti solo o in compagnia?
— Solo? Saremo piú di cento ragazzi.
— E il viaggio lo fate a piedi?
— Fra poco passerà di qui il carro che mi
deve prendere e condurre fin dentro ai confini di quel fortunatissimo paese.
— Che cosa pagherei che il carro passasse
ora!...
— Perché?
— Per vedervi partire tutti insieme.
— Rimani qui un altro poco e ci vedrai.
— No, no: voglio ritornare a casa.
— Aspetta altri due minuti.
— Ho indugiato anche troppo. La Fata starà
in pensiero per me.
— Povera Fata! Che ha paura forse che ti
mangino i pipistrelli?
— Ma dunque — soggiunse Pinocchio — tu sei
veramente sicuro che in quel paese non ci sono punte scuole?...
— Neanche l’ombra.
— E nemmeno i maestri?
— Nemmen uno.
— E non c’è mai l’obbligo di studiare?
— Mai, mai, mai!
— Che bel paese! — disse Pinocchio, sentendo
venirsi l’acquolina in bocca. — Che bel paese! Io non ci sono stato mai, ma me
lo figuro!...
— Perché non vieni anche tu?
— È inutile che tu mi tenti! Oramai ho
promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo di giudizio, e non voglio
mancare alla parola.
— Dunque addio, e salutami tanto le scuole
ginnasiali!... e anche quelle liceali, se le incontri per la strada.
— Addio, Lucignolo: fa’ buon viaggio,
divertiti e rammentati qualche volta degli amici. —
Ciò detto, il burattino fece due passi in atto di
andarsene: ma poi, fermandosi e voltandosi all’amico, gli domandò:
— Ma sei proprio sicuro che in quel paese
tutte le settimane sieno composte di sei giovedí e di una domenica?
— Sicurissimo.
— Ma lo sai di certo che le vacanze abbiano
principio col primo di gennaio e finiscano coll’ultimo di dicembre?
— Di certissimo!
— Che bel paese! — ripeté Pinocchio,
sputando dalla soverchia consolazione. Poi, fatto un animo risoluto, soggiunse
in fretta e furia:
— Dunque, addio davvero: e buon viaggio.
— Addio.
— Fra quanto partirete?
— Fra poco!
— Sarei quasi quasi capace di aspettare.
— E la Fata?...
— Oramai ho fatto tardi!... e tornare a casa
un’ora prima o un’ora dopo, è lo stesso.
— Povero Pinocchio! E se la Fata ti grida?
— Pazienza! La lascerò gridare. Quando avrà
gridato ben bene, si cheterà. —
Intanto si era già fatta notte e notte buia:
quando a un tratto videro muoversi in lontananza un lumicino... e sentirono un
suono di bubboli e uno squillo di trombetta, cosí piccolino e soffocato, che
pareva il sibilo di una zanzara!
— Eccolo! — gridò Lucignolo, rizzandosi in
piedi.
— Chi è? — domandò sottovoce Pinocchio.
— È il carro che viene a prendermi. Dunque,
vuoi venire, sí o no?
— Ma è proprio vero — domandò il burattino —
che in quel paese i ragazzi non hanno mai l’obbligo di studiare?
— Mai, mai, mai!
— Che bel paese!... che bel paese!... che
bel paese!... —
XXXI
Dopo
cinque mesi di cuccagna, Pinocchio con sua gran maraviglia,
sente
spuntarsi un bel pajo d’orecchie asinine,
e
diventa un ciuchino, con la coda e tutto.
Finalmente il carro arrivò: e arrivò senza fare
il piú piccolo rumore, perché le sue ruote erano fasciate di stoppa e di cenci.
Lo tiravano dodici pariglie di ciuchini, tutti della
medesima grandezza, ma di diverso pelame.
Alcuni erano bigi, altri bianchi, altri
brizzolati a uso pepe e sale, e altri rigati da grandi strisce gialle e
turchine.
Ma la cosa piú singolare era questa: che quelle
dodici pariglie, ossia quei ventiquattro ciuchini, invece di esser ferrati come
tutte le altre bestie da tiro o da soma, avevano in piedi degli stivaletti da
uomo fatti di pelle bianca.
E il conduttore del carro?...
Figuratevi un omino piú largo che lungo, tenero e
untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che
rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto, che si
raccomanda al buon cuore della padrona di casa.
Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano
innamorati e facevano a gara nel montare sul suo carro, per esser condotti da
lui in quella vera cuccagna conosciuta nella carta geografica col seducente
nome di «Paese de’ balocchi».
Difatti il carro era già tutto pieno di
ragazzetti fra gli otto e i dodici anni, ammonticchiati gli uni sugli altri
come tante acciughe nella salamoia. Stavano male, stavano pigiati, non potevano
quasi respirare: ma nessuno diceva ohi! nessuno si lamentava. La consolazione
di sapere che fra poche ore sarebbero giunti in un paese, dove non c’erano né
libri, né scuola, né maestri, li rendeva cosí contenti e rassegnati, che non
sentivano né i disagi, né gli strapazzi, né la fame, né la sete, né il sonno.
Appena che il carro si fu fermato, l’Omino si
volse a Lucignolo, e con mille smorfie e mille manierine, gli domandò
sorridendo:
— Dimmi, mio bel ragazzo, vuoi venire anche
tu in quel fortunato paese?
— Sicuro che ci voglio venire.
— Ma ti avverto, carino mio, che nel carro
non c’è piú posto. Come vedi, è tutto pieno!...
— Pazienza! — replicò Lucignolo — se non c’è
posto dentro, mi adatterò a star seduto sulle stanghe del carro. —
E spiccato un salto, montò a cavalcioni sulle
stanghe.
— E tu, amor mio — disse l’Omino volgendosi
tutto complimentoso a Pinocchio — che intendi fare? Vieni con noi o rimani?...
— Io rimango — rispose Pinocchio. — Io
voglio tornarmene a casa mia: voglio studiare e voglio farmi onore alla scuola,
come fanno tutti i ragazzi perbene.
— Buon pro ti faccia!
— Pinocchio! — disse allora Lucignolo. — Da’
retta a me: vieni con noi, e staremo allegri.
— No, no, no!
— Vieni con noi e staremo allegri —
gridarono altre quattro voci di dentro al carro.
— Vieni con noi e staremo allegri — urlarono
tutte insieme un centinaio di voci.
— E se vengo con voi, che cosa dirà la mia
buona Fata? — disse il burattino che cominciava a intenerirsi e a ciurlar nel
manico.
— Non ti fasciare il capo con tante
malinconie. Pensa che andiamo in un paese dove saremo padroni di fare il
chiasso dalla mattina alla sera! —
Pinocchio non rispose, ma fece un sospiro: poi
fece un altro sospiro: poi un terzo sospiro: finalmente disse:
— Fatemi un po’ di posto: voglio venire
anch’io!...
— I posti son tutti pieni — replicò l’Omino
— ma per mostrarti quanto sei gradito, posso cederti il mio posto a cassetta...
— E voi?...
— E io farò la strada a piedi.
— No davvero, che non lo permetto.
Preferisco piuttosto di salire in groppa a qualcuno di questi ciuchini! — gridò
Pinocchio.
Detto fatto, si avvicinò al ciuchino manritto della
prima pariglia, e fece l’atto di volerlo cavalcare: ma la bestiòla, voltandosi
a secco, gli dètte una gran musata nello stomaco e lo gettò a gambe all’aria.
Figuratevi la risatona impertinente e sgangherata
di tutti quei ragazzi presenti alla scena.
Ma l’Omino non rise. Si accostò pieno di
amorevolezza al ciuchino ribelle, e, facendo finta di dargli un bacio, gli
staccò con un morso la metà dell’orecchio destro.
Intanto Pinocchio, rizzatosi da terra tutto
infuriato, schizzò con un salto sulla groppa di quel povero animale. E il salto
fu cosí bello, che i ragazzi, smesso di ridere, cominciarono a urlare: viva
Pinocchio! e a fare una smanacciata di applausi, che non finivano piú.
Quand’ecco che all’improvviso il ciuchino alzò
tutte e due le gambe di dietro, e dando una fortissima sgropponata, scaraventò
il povero burattino in mezzo alla strada, sopra un monte di ghiaia.
Allora grandi risate daccapo: ma l’Omino, invece
di ridere, si sentí preso da tanto amore per quell’irrequieto asinello che, con
un bacio, gli portò via di netto la metà di quell’altro orecchio. Poi disse al
burattino:
— Rimonta pure a cavallo, e non aver paura.
Quel ciuchino aveva qualche grillo per il capo: ma io gli ho detto due paroline
negli orecchi, e spero di averlo reso mansueto e ragionevole. —
Pinocchio montò: e il carro cominciò a muoversi:
ma nel tempo che i ciuchini galoppavano e che il carro correva sui ciottoli
della via maestra, gli parve al burattino di sentire una voce sommessa e appena
intelligibile, che gli disse:
— Povero gonzo! Hai voluto fare a modo tuo,
ma te ne pentirai! —
Pinocchio, quasi impaurito, guardò di qua e di
là, per conoscere da qual parte venissero queste parole; ma non vide nessuno: i
ciuchini galoppavano, il carro correva, i ragazzi dentro al carro dormivano,
Lucignolo russava come un ghiro e l’Omino seduto a cassetta, canterellava fra i
denti:
Tutti la notte dormono
E io non dormo mai...
Fatto un altro mezzo chilometro, Pinocchio sentí
la solita vocina fioca che gli disse:
— Tienlo a mente, grullerello! I ragazzi che
smettono di studiare e voltano le spalle ai libri, alle scuole e ai maestri,
per darsi interamente ai balocchi e ai divertimenti, non possono far altro che
una fine disgraziata!... Io lo so per prova!... e te lo posso dire! Verrà un
giorno che piangerai anche tu, come oggi piango io... ma allora sarà
tardi!... —
A queste parole bisbigliate sommessamente, il
burattino, spaventato piú che mai, saltò giú dalla groppa della cavalcatura, e
andò a prendere il suo ciuchino per il muso.
E immaginatevi come restò, quando s’accòrse che
il suo ciuchino piangeva... e piangeva proprio come un ragazzo!
— Ehi, signor Omino, — gridò allora
Pinocchio al padrone del carro — sapete che cosa c’è di nuovo? Questo ciuchino
piange.
— Lascialo piangere: riderà quando sarà
sposo.
— Ma che forse gli avete insegnato anche a
parlare?
— No: ha imparato da sé a borbottare qualche
parola, essendo stato tre anni in una compagnia di cani ammaestrati.
— Povera bestia!...
— Via, via — disse l’Omino — non perdiamo il
nostro tempo a veder piangere un ciuco. Rimonta a cavallo, e andiamo: la
nottata è fresca e la strada è lunga. —
Pinocchio obbedí senza rifiatare. Il carro
riprese la sua corsa: e la mattina, sul far dell’alba, arrivarono felicemente
nel «Paese dei balocchi».
Questo paese non somigliava a nessun altro paese
del mondo. La sua popolazione era tutta composta di ragazzi. I piú vecchi
avevano anni: i piú giovani ne
avevano appena. Nelle strade,
un’allegria, un chiasso, uno strillío da levar di cervello! Branchi di monelli
da per tutto: chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi
andava in velocipede, chi sopra un cavallino di legno: questi facevano a
mosca-cieca, quegli altri si rincorrevano: altri, vestiti da pagliacci,
mangiavano la stoppa accesa: chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti
mortali, chi si divertiva a camminare colle mani in terra e colle gambe in
aria: chi mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da generale coll’elmo di
foglio e lo squadrone di cartapesta: chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi
batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il verso alla gallina quando ha
fatto l’ovo: insomma un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano
indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non rimanere
assorditi. Su tutte le piazze si vedevano teatrini di tela, affollati di
ragazzi dalla mattina alla sera, e su tutti i muri delle case si leggevano
scritte col carbone delle bellissime cose come queste: viva i balocci! (invece
di balocchi): non vogliamo piú schole (invece di non vogliamo piú scuole):
abbasso Larin Metica (invece di l’aritmetica) e altri fiori consimili.
Pinocchio, Lucignolo e tutti gli altri ragazzi,
che avevano fatto il viaggio coll’Omino, appena ebbero messo il piede dentro la
città, si ficcarono subito in mezzo alla gran baraonda, e in pochi minuti,
com’è facile immaginarselo, diventarono gli amici di tutti. Chi piú felice, chi
piú contento di loro?
In mezzo ai continui spassi e agli svariati
divertimenti, le ore, i giorni, le settimane passavano come tanti baleni.
— Oh! che bella vita! — diceva Pinocchio
tutte le volte che per caso s’imbatteva in Lucignolo.
— Vedi, dunque, se avevo ragione? —
ripigliava quest’ultimo. — E dire che tu non volevi partire! E pensare che t’eri
messo in capo di tornartene a casa dalla tua Fata, per prendere il tempo a
studiare!... Se oggi ti sei liberato dalla noia dei libri e delle scuole, lo
devi a me, ai miei consigli, alle mie premure, ne convieni? Non vi sono che i
veri amici che sappiano rendere di questi grandi favori.
— È vero, Lucignolo! Se oggi io sono un
ragazzo veramente contento, è tutto merito tuo. E il maestro, invece, sai che
cosa mi diceva, parlando di te? Mi diceva sempre: — Non praticare quella birba
di Lucignolo, perché Lucignolo è un cattivo compagno e non può consigliarti
altro che a far del male!...
— Povero maestro! — replicò l’altro
tentennando il capo. — Lo so pur troppo che mi aveva a noia, e che si divertiva
sempre a calunniarmi; ma io sono generoso e gli perdono!
— Anima grande! — disse Pinocchio,
abbracciando affettuosamente l’amico e dandogli un bacio in mezzo agli occhi.
Intanto era già da cinque mesi che durava questa
bella cuccagna di baloccarsi e di divertirsi le giornate intere, senza mai
vedere in faccia né un libro, né una scuola; quando una mattina Pinocchio,
svegliandosi, ebbe, come si suol dire, una gran brutta sorpresa, che lo messe
proprio di malumore.
XXXII
A
Pinocchio gli vengono gli orecchi di ciuco,
e poi
diventa un ciuchino vero e comincia a ragliare.
— E questa sorpresa quale fu?
— Ve lo dirò io, miei cari e piccoli
lettori: la sorpresa fu che a Pinocchio, svegliandosi, gli venne fatto
naturalmente di grattarsi il capo; e nel grattarsi il capo si accòrse...
Indovinate un po’ di che cosa si accòrse?
Si accòrse con suo grandissimo stupore, che gli
orecchi gli erano cresciuti piú d’un palmo.
Voi sapete che il burattino, fin dalla nascita,
aveva gli orecchi piccini piccini: tanto piccini che, a occhio nudo, non si
vedevano neppure! Immaginatevi dunque come restò, quando dové toccar con mano
che i suoi orecchi, durante la notte, erano cosí allungati, che parevano due
spazzole di padule.
Andò subito in cerca di uno specchio, per potersi
vedere: ma non trovando uno specchio, empí d’acqua la catinella del lavamano, e
specchiandovisi dentro, vide quel che non avrebbe mai voluto vedere: vide,
cioè, la sua immagine abbellita di un magnifico paio di orecchi asinini.
Lascio pensare a voi il dolore, la vergogna, e la
disperazione del povero Pinocchio!
Cominciò a piangere, a strillare, a battere la
testa nel muro: ma quanto piú si disperava, e piú i suoi orecchi crescevano,
crescevano, crescevano e diventavano pelosi verso la cima.
Al rumore di quelle grida acutissime, entrò nella
stanza una bella Marmottina, che abitava al piano di sopra: la quale, vedendo
il burattino in cosí grandi smanie, gli domandò premurosamente:
— Che cos’hai, mio caro casigliano?
— Sono malato, Marmottina mia, molto
malato... e malato d’una malattia che mi fa paura! Te ne intendi tu del polso?
— Un pochino.
— Senti dunque se per caso avessi la
febbre. —
La Marmottina alzò la zampa destra davanti: e
dopo aver tastato il polso a Pinocchio, gli disse sospirando:
— Amico mio, mi dispiace doverti dare una
cattiva notizia!...
— Cioè?
— Tu hai una gran brutta febbre!
— E che febbre sarebbe?
— È la febbre del somaro.
— Non la capisco questa febbre! — rispose il
burattino, che l’aveva pur troppo capita.
— Allora te la spiegherò io — soggiunse la Marmottina.
— Sappi dunque che fra due o tre ore tu non sarai piú né un burattino, né un
ragazzo...
— E che cosa sarò?
— Fra due o tre ore, tu diventerai un
ciuchino vero e proprio, come quelli che tirano il carretto e che portano i
cavoli e l’insalata al mercato.
— Oh! povero me! povero me! — gridò
Pinocchio pigliandosi con le mani tutt’e due gli orecchi, e tirandoli e
strapazzandoli rabbiosamente, come se fossero gli orecchi di un altro.
— Caro mio, — replicò la Marmottina per
consolarlo — che cosa ci vuoi tu fare? Oramai è destino. Oramai è scritto nei
decreti della sapienza, che tutti quei ragazzi svogliati che, pigliando a noia
i libri, le scuole e i maestri, passano le loro giornate in balocchi, in giochi
e in divertimenti, debbano finire prima o poi col trasformarsi in tanti piccoli
somari.
— Ma davvero è proprio cosí? — domandò
singhiozzando il burattino.
— Pur troppo è cosí! E ora i pianti sono
inutili. Bisognava pensarci prima!
— Ma la colpa non è mia: la colpa, credilo,
Marmottina, è tutta di Lucignolo!...
— E chi è questo Lucignolo?
— Un mio compagno di scuola. Io volevo
tornare a casa: io volevo essere ubbidiente: io volevo seguitare a studiare e a
farmi onore... ma Lucignolo mi disse: — «Perché vuoi tu annoiarti a studiare?
perché vuoi andare alla scuola?... Vieni piuttosto con me, nel Paese dei
balocchi: lí non studieremo piú; lí ci divertiremo dalla mattina alla sera e
staremo sempre allegri».
— E perché seguisti il consiglio di quel
falso amico? di quel cattivo compagno?
— Perché?... perché, Marmottina mia, io sono
un burattino senza giudizio... e senza cuore. Oh! se avessi avuto un zinzino di
cuore, non avrei mai abbandonata quella buona Fata, che mi voleva bene come una
mamma e che aveva fatto tanto per me!... e a quest’ora non sarei piú un burattino...
ma sarei invece un ragazzino ammodo, come ce n’è tanti! Oh!... ma se incontro
Lucignolo, guai a lui! Gliene voglio dire un sacco e una sporta!... —
E fece l’atto di volere uscire. Ma quando fu
sulla porta, si ricordò che aveva gli orecchi d’asino, e vergognandosi di
mostrarli in pubblico, che cosa inventò? Prese un gran berretto di cotone, e,
ficcatoselo in testa, se lo ingozzò fin sotto la punta del naso.
Poi uscí: e si dètte a cercare Lucignolo da per
tutto. Lo cercò nelle strade, nelle piazze, nei teatrini, in ogni luogo: ma non
lo trovò. Ne chiese notizia a quanti incontrò per la via, ma nessuno l’aveva
veduto.
Allora andò a cercarlo a casa: e arrivato alla
porta, bussò.
— Chi è? — domandò Lucignolo di dentro.
— Sono io! — rispose il burattino.
— Aspetta un poco, e ti aprirò. —
Dopo mezz’ora la porta si aprí: e figuratevi come
restò Pinocchio quando, entrando nella stanza, vide il suo amico Lucignolo con
un gran berretto di cotone in testa, che gli scendeva fin sotto il naso.
Alla vista di quel berretto, Pinocchio sentí
quasi consolarsi e pensò subito dentro di sé:
— Che l’amico sia malato della mia medesima
malattia? Che abbia anche lui la febbre del ciuchino?... —
E facendo finta di non essersi accorto di nulla,
gli domandò sorridendo:
— Come stai, mio caro Lucignolo?
— Benissimo: come un topo in una forma di
cacio parmigiano.
— Lo dici proprio sul serio?
— E perché dovrei dirti una bugia?
— Scusami, amico: e allora perché tieni in
capo codesto berretto di cotone che ti cuopre tutti gli orecchi?
— Me l’ha ordinato il medico, perché mi son
fatto male a un ginocchio. E tu, caro Pinocchio, perché porti codesto berretto
di cotone ingozzato fin sotto il naso?
— Me l’ha ordinato il medico, perché mi sono
sbucciato un piede.
— Oh! povero Pinocchio!...
— Oh! povero Lucignolo!...
A queste parole tenne dietro un lunghissimo
silenzio, durante il quale i due amici non fecero altro che guardarsi fra loro
in atto di canzonatura.
Finalmente il burattino, con una vocina melliflua
e flautata, disse al suo compagno:
— Levami una curiosità, mio caro Lucignolo:
hai mai sofferto di malattia agli orecchi?
— Mai!... E tu?
— Mai! Per altro da questa mattina in poi ho
un orecchio che mi fa spasimare.
— Ho lo stesso male anch’io.
— Anche tu?... E qual è l’orecchio che ti duole?
— Tutti e due. E tu?
— Tutti e due. Che sia la medesima malattia?
— Ho paura di sí.
— Vuoi farmi un piacere, Lucignolo?
— Volentieri! Con tutto il cuore.
— Mi fai vedere i tuoi orecchi?
— Perché no? Ma prima voglio vedere i tuoi,
caro Pinocchio.
— No: il primo devi essere tu.
— No, carino! Prima tu, e dopo io!
— Ebbene, — disse allora il burattino —
facciamo un patto da buoni amici.
— Sentiamo il patto.
— Leviamoci tutti e due il berretto nello
stesso tempo: accetti?
— Accetto.
— Dunque attenti!
E Pinocchio cominciò a contare a voce alta:
— Uno! Due! Tre! —
Alla parola tre! i due ragazzi presero i loro
berretti di capo e li gettarono in aria.
E allora avvenne una scena, che parrebbe
incredibile, se non fosse vera. Avvenne, cioè, che Pinocchio e Lucignolo,
quando si videro colpiti tutti e due dalla medesima disgrazia, invece di restar
mortificati e dolenti, cominciarono ad ammiccarsi i loro orecchi smisuratamente
cresciuti, e dopo mille sguaiataggini finirono col dare in una bella risata.
E risero, risero, risero da doversi reggere il
corpo: se non che, sul piú bello del ridere, Lucignolo tutt’a un tratto si
chetò, e barcollando e cambiando di colore, disse all’amico:
— Aiuto, aiuto, Pinocchio!
— Che cos’hai?
— Ohimè! non mi riesce piú di star ritto
sulle gambe.
— Non mi riesce piú neanche a me — gridò
Pinocchio, piangendo e traballando.
E mentre dicevano cosí, si piegarono tutti e due
carponi a terra e, camminando con le mani e coi piedi, cominciarono a girare e
a correre per la stanza. E intanto che correvano, i loro bracci diventarono
zampe, i loro visi si allungarono e diventarono musi, e le loro schiene si
coprirono di un pelame grigiolino chiaro brizzolato di nero.
Ma il momento piú brutto per que’ due sciagurati
sapete quando fu? Il momento piú brutto e piú umiliante fu quello quando
sentirono spuntarsi di dietro la coda. Vinti allora dalla vergogna e dal
dolore, si provarono a piangere e a lamentarsi del loro destino.
Non l’avessero mai fatto! Invece di gemiti e di
lamenti, mandavano fuori dei ragli asinini; e ragliando sonoramente, facevano
tutti e due in coro: j-a, j-a, j-a.
In quel frattempo fu bussato alla porta, e una
voce di fuori disse:
— Aprite! Sono l’Omino, sono il conduttore
del carro che vi portò in questo paese. Aprite subito, o guai a voi! —
XXXIII
Diventato
un ciuchino vero, è portato a vendere,
e lo
compra il Direttore di una compagnia di pagliacci,
per
insegnargli a ballare e a saltare i cerchi:
ma una
sera azzoppisce e allora lo ricompra un altro,
per far
con la sua pelle un tamburo.
Vedendo che la porta non si apriva, l’Omino la
spalancò con un violentissimo calcio: ed entrato nella stanza, disse col suo
solito risolino a Pinocchio e a Lucignolo:
— Bravi ragazzi! Avete ragliato bene, e io
vi ho subito riconosciuti alla voce. E per questo eccomi qui. —
A tali parole, i due ciuchini rimasero mogi mogi,
colla testa giú, con gli orecchi bassi e con la coda fra le gambe.
Da principio l’Omino li lisciò, li accarezzò, li
palpeggiò: poi, tirata fuori la striglia, cominciò a strigliarli per bene. E
quando a furia di strigliarli, li ebbe fatti lustri come due specchi, allora
messe loro la cavezza e li condusse sulla piazza del mercato, con la speranza
di venderli e di beccarsi un discreto guadagno.
E i compratori, difatti, non si fecero aspettare.
Lucignolo fu comprato da un contadino, a cui era
morto il somaro il giorno avanti, e Pinocchio fu venduto al Direttore di una
compagnia di pagliacci e di saltatori di corda, il quale lo comprò per
ammaestrarlo e per farlo poi saltare e ballare insieme con le altre bestie
della compagnia.
E ora avete capito, miei piccoli lettori, qual
era il bel mestiere che faceva l’Omino? Questo brutto mostriciattolo, che aveva
la fisonomia tutta di latte e miele, andava di tanto in tanto con un carro a
girare per il mondo: strada facendo raccoglieva con promesse e con moine tutti
i ragazzi svogliati, che avevano a noia i libri e le scuole: e dopo averli
caricati sul suo carro, li conduceva nel «Paese dei balocchi» perché passassero
tutto il loro tempo in giochi, in chiassate e in divertimenti. Quando poi quei
poveri ragazzi illusi, a furia di baloccarsi sempre e di non studiar mai,
diventavano tanti ciuchini, allora tutto allegro e contento s’impadroniva di
loro e li portava a vendere sulle fiere e su i mercati. E cosí in pochi anni
aveva fatto fior di quattrini ed era diventato milionario.
Quel che accadesse di Lucignolo, non lo so: so,
per altro, che Pinocchio andò incontro fin dai primi giorni a una vita
durissima e strapazzata.
Quando fu condotto nella stalla, il nuovo padrone
gli empí la greppia di paglia: ma Pinocchio, dopo averne assaggiata una
boccata, la risputò.
Allora il padrone, brontolando, gli empí la
greppia di fieno: ma neppure il fieno gli piacque.
— Ah! non ti piace neppure il fieno? — gridò
il padrone imbizzito. — Lascia fare, ciuchino bello, che se hai dei capricci
per il capo, penserò io a levarteli!... —
E a titolo di correzione, gli affibbiò subito una
frustata nelle gambe.
Pinocchio, dal gran dolore, cominciò a piangere e
a ragliare, e ragliando disse:
— J-a, j-a, la paglia non la posso
digerire!...
— Allora mangia il fieno! — replicò il
padrone, che intendeva benissimo il dialetto asinino.
— J-a, j-a, il fieno mi fa dolere il
corpo!...
— Pretenderesti, dunque, che un somaro, par
tuo, lo dovessi mantenere a petti di pollo e cappone in galantina? — soggiunse
il padrone arrabbiandosi sempre piú, e affibbiandogli una seconda frustata.
A quella seconda frustata Pinocchio, per
prudenza, si chetò subito e non disse altro.
Intanto la stalla fu chiusa e Pinocchio rimase
solo: e perché erano molte ore che non aveva mangiato, cominciò a sbadigliare
dal grande appetito. E, sbadigliando, spalancava la bocca che pareva un forno.
Alla fine, non trovando altro nella greppia, si
rassegnò a masticare un po’ di fieno: e dopo averlo masticato ben bene, chiuse
gli occhi e lo tirò giú.
— Questo fieno non è cattivo — poi disse
dentro di sé — ma quanto sarebbe stato meglio che avessi continuato a
studiare!... A quest’ora, invece di fieno, potrei mangiare un cantuccio di pan
fresco e una bella fetta di salame! Pazienza!... —
La mattina dopo, svegliandosi, cercò subito nella
greppia un altro po’ di fieno; ma non lo trovò, perché l’aveva mangiato tutto
nella notte.
Allora prese una boccata di paglia tritata; e in
quel mentre che la stava masticando, si dové persuadere che il sapore della
paglia tritata non somigliava punto né al risotto alla milanese né ai
maccheroni alla napoletana.
— Pazienza! — ripeté, continuando a masticare.
— Che almeno la mia disgrazia possa servire di lezione a tutti i ragazzi
disobbedienti e che non hanno voglia di studiare. Pazienza!... pazienza!...
— Pazienza un corno! — urlò il padrone,
entrando in quel momento nella stalla. — Credi forse, mio bel ciuchino, ch’io
ti abbia comprato unicamente per darti da bere e da mangiare? Io ti ho comprato
perché tu lavori e perché tu mi faccia guadagnare molti quattrini. Su, dunque,
da bravo! Vieni con me nel Circo e là ti insegnerò a saltare i cerchi, a
rompere col capo le botti di foglio e a ballare il valzer e la polca, stando
ritto sulle gambe di dietro. —
Il povero Pinocchio, o per amore o per forza,
dové imparare tutte queste bellissime cose; ma, per impararle, gli ci vollero
tre mesi di lezioni, e molte frustate da levare il pelo.
Venne finalmente il giorno, in cui il suo padrone
poté annunziare uno spettacolo veramente straordinario. I cartelloni di vario
colore, attaccati alle cantonate delle strade, dicevano cosí:
Quella sera, come potete figurarvelo, un’ora
prima che cominciasse lo spettacolo, il teatro era pieno stipato.
Non si trovava piú né una poltrona, né un posto
distinto, né un palco, nemmeno a pagarlo a peso d’oro.
Le gradinate del Circo formicolavano di bambini,
di bambine e di ragazzi di tutte le età, che avevano la febbre addosso per la
smania di veder ballare il famoso ciuchino Pinocchio.
Finita la prima parte dello spettacolo, il
Direttore della compagnia, vestito in giubba nera, calzoni bianchi a coscia e
stivaloni di pelle fin sopra ai ginocchi, si presentò all’affollatissimo
pubblico e, fatto un grande inchino, recitò con molta solennità il seguente
sprositato discorso:
«Rispettabile pubblico, cavalieri e dame!
«L’umile sottoscritto essendo di passaggio per
questa illustre metropolitana, ho voluto procrearmi l’onore nonché il piacere
di presentare a questo intelligente e cospicuo uditorio un celebre ciuchino,
che ebbe già l’onore di ballare al cospetto di Sua Maestà l’imperatore di tutte
le principali Corti d’Europa.
«E col ringraziandoli, aiutateci della vostra
animatrice presenza e compatiteci!»
Questo discorso fu accolto da molte risate e da
molti applausi; ma gli applausi raddoppiarono e diventarono una specie di
uragano alla comparsa del ciuchino Pinocchio in mezzo al Circo. Egli era tutto
agghindato a festa. Aveva una briglia nuova di pelle lustra, con fibbie e
borchie d’ottone; due camelie bianche agli orecchi: la criniera divisa in tanti
riccioli legati con fiocchettini di seta rossa: una gran fascia d’oro e
d’argento attraverso alla vita, e la coda tutta intrecciata con nastri di
velluto paonazzo e celeste. Era insomma un ciuchino da innamorare!
Il Direttore, nel presentarlo al pubblico,
aggiunse queste parole:
«Miei rispettabili auditori! Non starò qui a
farvi menzogna delle grandi difficoltà da me soppressate per comprendere e
soggiogare questo mammifero, mentre pascolava liberamente di montagna in
montagna nelle pianure della zona torrida. Osservate, vi prego, quanta
selvaggina trasudi da’ suoi occhi, conciossiaché essendo riusciti vanitosi
tutti i mezzi per addomesticarlo al vivere dei quadrupedi civili, ho dovuto piú
volte ricorrere all’affabile dialetto della frusta. Ma ogni mia gentilezza,
invece di farmi da lui benvolere, me ne ha maggiormente cattivato l’animo. Io
però, seguendo il sistema di Galles, trovai nel suo cranio una piccola
cartagine ossea, che la stessa Facoltà medicea di Parigi riconobbe esser quello
il bulbo rigeneratore dei capelli e della danza pirrica. E per questo io lo
volli ammaestrare nel ballo, nonché nei relativi salti dei cerchi e delle botti
foderate di foglio. Ammiratelo! e poi giudicatelo! Prima però di prendere
cognato da voi, permettete, o signori, che io vi inviti al diurno spettacolo di
domani sera: ma nell’apoteosi che il tempo piovoso minacciasse acqua, allora lo
spettacolo, invece di domani sera, sarà posticipato a domattina, alle ore antimeridiane del pomeriggio».
E qui il Direttore fece un’altra profondissima
riverenza: quindi volgendosi a Pinocchio, gli disse:
— Animo, Pinocchio! Avanti di dar principio
ai vostri esercizi, salutate questo rispettabile pubblico, cavalieri, dame e
ragazzi! —
Pinocchio, ubbidiente, piegò subito i due
ginocchi davanti, e rimase inginocchiato fino a tanto che il Direttore,
schioccando la frusta, non gli gridò:
— Al passo! —
Allora il ciuchino si rizzò sulle quattro gambe,
e cominciò a girare intorno al Circo, camminando sempre di passo.
Dopo un poco il Direttore gridò:
— Al trotto! — e Pinocchio, ubbidiente al
comando, cambiò il passo in trotto.
— Al galoppo! — e Pinocchio staccò il
galoppo.
— Alla carriera! — e Pinocchio si dètte a
correre di gran carriera. Ma in quella che correva come un barbero, il
Direttore, alzando il braccio in aria, scaricò un colpo di pistola.
A quel colpo il ciuchino, fingendosi ferito, cadde
disteso nel Circo, come se fosse moribondo davvero.
Rizzatosi da terra in mezzo a uno scoppio di
applausi, d’urli e di battimani, che andavano alle stelle, gli venne fatto
naturalmente di alzare la testa e di guardare in su... e guardando, vide in un palco
una bella signora, che aveva al collo una grossa collana d’oro dalla quale
pendeva un medaglione. Nel medaglione c’era dipinto il ritratto d’un burattino.
— Quel ritratto è il mio!... quella signora
è la Fata! — disse dentro di sé Pinocchio, riconoscendola subito: e lasciandosi
vincere dalla gran contentezza, si provò a gridare:
— Oh Fatina mia! oh Fatina mia!... —
Ma invece di queste parole, gli uscí dalla gola
un raglio cosí sonoro e prolungato, che fece ridere tutti gli spettatori, e
segnatamente tutti i ragazzi che erano in teatro.
Allora il Direttore, per insegnargli e per fargli
intendere che non è buona creanza di mettersi a ragliare in faccia al pubblico,
gli diè col manico della frusta una bacchettata sul naso.
Il povero ciuchino, tirato fuori un palmo di
lingua, durò a leccarsi il naso almeno cinque minuti, credendo forse cosí di
rasciugarsi il dolore che aveva sentito.
Ma quale fu la sua disperazione quando,
voltandosi in su una seconda volta, vide che il palco era vuoto e che la Fata
era sparita!...
Si sentí come morire: gli occhi gli si empirono
di lacrime e cominciò a piangere dirottamente. Nessuno però se ne accòrse, e,
meno degli altri, il Direttore, il quale, anzi, schioccando la frusta, gridò:
— Da bravo, Pinocchio! Ora farete vedere a questi
signori con quanta grazia sapete saltare i cerchi. —
Pinocchio si provò due o tre volte: ma ogni volta
che arrivava davanti al cerchio, invece di attraversarlo, ci passava piú
comodamente di sotto. Alla fine spiccò un salto e l’attraversò: ma le gambe di
dietro gli rimasero disgraziatamente impigliate nel cerchio: motivo per cui
ricadde in terra dall’altra parte tutto in un fascio.
Quando si rizzò, era azzoppito, e a malapena poté
ritornare alla scuderia.
— Fuori Pinocchio! Vogliamo il ciuchino!
Fuori il ciuchino! — gridavano i ragazzi dalla platea, impietositi e commossi
al tristissimo caso.
Ma il ciuchino per quella sera non si fece piú
rivedere.
La mattina dopo il veterinario, ossia il medico
delle bestie, quando l’ebbe visitato, dichiarò che sarebbe rimasto zoppo per
tutta la vita.
Allora il Direttore disse al suo garzone di
stalla:
— Che vuoi tu che mi faccia d’un somaro
zoppo? Sarebbe un mangiapane a ufo. Portalo dunque in piazza e
rivendilo. —
Arrivati in piazza, trovarono subito il
compratore, il quale domandò al garzone di stalla:
— Quanto vuoi di codesto ciuchino zoppo?
— Venti lire.
— Io ti do venti soldi. Non credere che io
lo compri per servirmene: lo compro unicamente per la sua pelle. Vedo che ha la
pelle molto dura, e con la sua pelle voglio fare un tamburo per la banda
musicale del mio paese. —
Lascio pensare a voi, ragazzi, il bel piacere che
fu per il povero Pinocchio, quando sentí che era destinato a diventare un
tamburo!
Fatto sta che il compratore, appena pagati i venti
soldi, condusse il ciuchino sulla riva del mare; e messogli un sasso al collo e
legatolo per una zampa con una fune che teneva in mano, gli diè improvvisamente
uno spintone e lo gettò nell’acqua.
Pinocchio, con quel macigno al collo, andò subito
a fondo: e il compratore, tenendo sempre stretta in mano la fune, si pose a
sedere sopra uno scoglio, aspettando che il ciuchino avesse tutto il tempo di
morire affogato, per poi scorticarlo e levargli la pelle.
XXXIV
Pinocchio,
gettato in mare, è mangiato dai pesci
e
ritorna ad essere un burattino come prima:
ma
mentre nuota per salvarsi, è ingojato dal terribile Pesce-cane.
Dopo cinquanta minuti che il ciuchino era
sott’acqua, il compratore disse, discorrendo da sé solo:
— A quest’ora il mio povero ciuchino zoppo
deve essere bell’e affogato. Ritiriamolo dunque su, e facciamo con la sua pelle
questo bel tamburo. —
E cominciò a tirare la fune, con la quale lo
aveva legato per una gamba: e tira, tira, tira, alla fine vide apparire a fior
d’acqua... indovinate? Invece di un ciuchino morto, vide apparire a fior
d’acqua un burattino vivo, che scodinzolava come un’anguilla.
Vedendo quel burattino di legno, il pover’uomo
credé di sognare e rimase lí intontito, a bocca aperta e con gli occhi fuori
della testa.
Riavutosi un poco dal suo primo stupore, disse
piangendo e balbettando:
— E il ciuchino che ho gettato in mare
dov’è?...
— Quel ciuchino son io! — rispose il
burattino, ridendo.
— Tu?
— Io.
— Ah! mariuolo! Pretenderesti forse di
burlarti di me?
— Burlarmi di voi? Tutt’altro, caro padrone:
io vi parlo sul serio.
— Ma come mai tu, che poco fa eri un
ciuchino, ora stando nell’acqua, sei diventato un burattino di legno?...
— Sarà effetto dell’acqua del mare. Il mare
ne fa di questi scherzi.
— Bada burattino, bada!... Non credere di
divertirti alle mie spalle! Guai a te, se mi scappa la pazienza!
— Ebbene, padrone; volete sapere tutta la
vera storia? Scioglietemi questa gamba e io ve la racconterò. —
Quel buon pasticcione del compratore, curioso di
conoscere la vera storia, gli sciolse subito il nodo della fune, che lo teneva
legato: e allora Pinocchio, trovandosi libero come un uccello nell’aria, prese
a dirgli cosí:
— Sappiate dunque che io ero un burattino di
legno, come sono oggi: ma mi trovavo a tocco e non tocco di diventare un
ragazzo, come in questo mondo ce n’è tanti: se non che per la mia poca voglia
di studiare e per dar retta ai cattivi compagni, scappai di casa... e un bel
giorno, svegliandomi, mi trovai cambiato in un somaro con tanto d’orecchi... e
con tanto di coda!... Che vergogna fu quella per me!... Una vergogna, caro
padrone, che Sant’Antonio benedetto non la faccia provare neppure a voi!
Portato a vendere sul mercato degli asini, fui comprato dal Direttore di una
compagnia equestre, il quale si messe in capo di far di me un gran ballerino e
un gran saltatore di cerchi: ma una sera, durante lo spettacolo, feci in teatro
una brutta cascata e rimasi zoppo da tutt’e due le gambe. Allora il Direttore,
non sapendo che cosa farsi d’un asino zoppo, mi mandò a rivendere, e voi mi
avete comprato!...
— Pur troppo! E ti ho pagato venti soldi. E
ora chi mi rende i miei poveri venti soldi?
— E perché mi avete comprato? Voi mi avete
comprato per fare con la mia pelle un tamburo!... un tamburo!...
— Pur troppo! E ora dove troverò un’altra
pelle?...
— Non vi date alla disperazione, padrone.
Dei ciuchini ce n’è tanti in questo mondo!
— Dimmi, monello impertinente; e la tua
storia finisce qui?
— No — rispose il burattino — ci sono altre due
parole, e poi è finita. Dopo avermi comprato, mi avete condotto in questo luogo
per uccidermi, ma poi, cedendo a un sentimento pietoso d’umanità, avete
preferito di legarmi un sasso al collo e di gettarmi in fondo al mare. Questo
sentimento di delicatezza vi onora moltissimo e io ve ne serberò eterna
riconoscenza. Per altro, caro padrone, questa volta avete fatto i vostri conti
senza la Fata...
— E chi è questa Fata?
— È la mia mamma, la quale somiglia a tutte
quelle buone mamme, che vogliono un gran bene ai loro ragazzi, e non li perdono
mai d’occhio, e li assistono amorosamente in ogni disgrazia, anche quando
questi ragazzi, per le loro scapataggini e per i loro cattivi portamenti,
meriterebbero di esser abbandonati e lasciati in balía a sé stessi. Dicevo,
dunque, che la buona Fata, appena mi vide in pericolo di affogare, mandò subito
intorno a me un branco infinito di pesci, i quali credendomi davvero un
ciuchino bell’e morto, cominciarono a mangiarmi! E che bocconi che facevano!
Non avrei mai creduto che i pesci fossero piú ghiotti anche dei ragazzi!... Chi
mi mangiò gli orecchi, chi mi mangiò il muso, chi il collo e la criniera, chi
la pelle delle zampe, chi la pelliccia della schiena... e, fra gli altri, vi fu
un pesciolino cosí garbato, che si degnò perfino di mangiarmi la coda.
— Da oggi in poi — disse il compratore
inorridito — faccio giuro di non assaggiar piú carne di pesce. Mi dispiacerebbe
troppo di aprire una triglia o un nasello fritto e di trovargli in corpo una
coda di ciuco!
— Io la penso come voi — replicò il
burattino, ridendo. — Del resto, dovete sapere che quando i pesci ebbero finito
di mangiarmi tutta quella buccia asinina, che mi copriva dalla testa ai piedi,
arrivarono, com’è naturale, all’osso... o per dir meglio, arrivarono al legno,
perché, come vedete, io son fatto di legno durissimo. Ma dopo dati i primi
morsi, quei pesci ghiottoni si accòrsero subito che il legno non era ciccia per
i loro denti, e nauseati da questo cibo indigesto se ne andarono chi in qua,
chi in là, senza voltarsi nemmeno a dirmi grazie. Ed eccovi raccontato come
qualmente voi, tirando su la fune, avete trovato un burattino vivo, invece d’un
ciuchino morto.
— Io mi rido della tua storia — gridò il
compratore imbestialito. — Io so che ho speso venti soldi per comprarti, e
rivoglio i miei quattrini. Sai che cosa farò? Ti porterò daccapo al mercato, e
ti rivenderò a peso di legno stagionato per accendere il fuoco nel caminetto.
— Rivendetemi pure: io sono contento — disse
Pinocchio.
Ma nel dir cosí, fece un bel salto e schizzò in
mezzo all’acqua. E nuotando allegramente e allontanandosi dalla spiaggia,
gridava al povero compratore:
— Addio, padrone; se avete bisogno di una
pelle per fare un tamburo, ricordatevi di me. —
E poi rideva e seguitava a nuotare: e dopo un
poco, rivoltandosi indietro, urlava piú forte:
— Addio, padrone; se avete bisogno di un po’
di legno stagionato per accendere il caminetto, ricordatevi di me. —
Fatto sta che in un batter d’occhio si era tanto
allontanato, che non si vedeva quasi piú; ossia, si vedeva solamente sulla
superficie del mare un puntolino nero, che di tanto in tanto rizzava le gambe
fuori dell’acqua e faceva capriòle e salti, come un delfino in vena di buon
umore.
Intanto che Pinocchio nuotava alla ventura, vide
in mezzo al mare uno scoglio che pareva di marmo bianco, e su in cima allo
scoglio, una bella caprettina che belava amorosamente e gli faceva segno di
avvicinarsi.
La cosa piú singolare era questa: che la lana
della caprettina, invece di esser bianca, o nera, o pallata di piú colori, come
quella delle altre capre, era invece tutta turchina, ma d’un turchino cosí
sfolgorante, che rammentava moltissimo i capelli della bella Bambina.
Lascio pensare a voi se il cuore del povero
Pinocchio cominciò a battere piú forte! Raddoppiando di forza e di energia si
diè a nuotare verso lo scoglio bianco: ed era già a mezza strada, quand’ecco
uscir fuori dell’acqua e venirgli incontro un’orribile testa di mostro marino,
con la bocca spalancata come una voragine, e tre filari di zanne, che avrebbero
fatto paura anche a vederle dipinte.
E sapete chi era quel mostro marino?
Quel mostro marino era né piú né meno quel
gigantesco Pesce-cane ricordato piú volte in questa storia, e che per le sue
stragi e per la sua insaziabile voracità, veniva soprannominato «l’Attila dei
pesci e dei pescatori».
Immaginatevi lo spavento del povero Pinocchio,
alla vista del mostro. Cercò di scansarlo, di cambiare strada: cercò di
fuggire: ma quella immensa bocca spalancata gli veniva sempre incontro con la
velocità di una saetta.
— Affrettati, Pinocchio, per carità! —
gridava belando la bella caprettina.
E Pinocchio nuotava disperatamente con le
braccia, col petto, con le gambe e coi piedi.
— Corri, Pinocchio, perché il mostro si
avvicina!... —
E Pinocchio, raccogliendo tutte le sue forze,
raddoppiava di lena nella corsa.
— Bada, Pinocchio!... il mostro ti
raggiunge!... Eccolo!... Eccolo!... Affrettati per carità, o sei
perduto!... —
E Pinocchio a nuotare piú lesto che mai, e via, e
via, e via, come anderebbe una palla di fucile. E già si accostava allo
scoglio, e già la caprettina, spenzolandosi tutta sul mare, gli porgeva le sue
zampine davanti per aiutarlo a uscir fuori dell’acqua... Ma!...
Ma oramai era tardi! Il mostro lo aveva
raggiunto. Il mostro, tirando il fiato a sé, si bevve il povero burattino, come
avrebbe bevuto un uovo di gallina, e lo inghiottí con tanta violenza e con
tanta avidità, che Pinocchio, cascando giú in corpo al Pesce-cane, batté un
colpo cosí screanzato da restarne sbalordito per un quarto d’ora.
Quando ritornò in sé da quello sbigottimento, non
sapeva raccapezzarsi, nemmeno lui, in che mondo si fosse. Intorno a sé c’era da
ogni parte un gran buio: ma un buio cosí nero e profondo, che gli pareva di
essere entrato col capo in un calamaio pieno d’inchiostro.
Stette in ascolto e non sentí nessun rumore:
solamente di tanto in tanto sentiva battersi nel viso alcune grandi buffate di
vento. Da principio non sapeva intendere da dove quel vento uscisse: ma poi
capí che usciva dai polmoni del mostro. Perché bisogna sapere che il Pesce-cane
soffriva moltissimo d’asma, e quando respirava, pareva proprio che soffiasse la
tramontana.
Pinocchio, sulle prime, s’ingegnò di farsi un po’
di coraggio: ma quand’ebbe la prova e la riprova di trovarsi chiuso in corpo al
mostro marino, allora cominciò a piangere e a strillare; e piangendo diceva:
— Aiuto! aiuto! Oh povero me! Non c’è
nessuno che venga a salvarmi?
— Chi vuoi che ti salvi, disgraziato?... —
disse in quel buio una vociaccia fessa di chitarra scordata.
— Chi è che parla cosí? — domandò Pinocchio,
sentendosi gelare dallo spavento.
— Sono io! sono un povero Tonno, inghiottito
dal Pesce-cane insieme con te. E tu che pesce sei?
— Io non ho che veder nulla coi pesci. Io
sono un burattino.
— E allora, se non sei un pesce, perché ti
sei fatto inghiottire dal mostro?
— Non son io, che mi son fatto inghiottire:
gli è lui che mi ha inghiottito! Ed ora che cosa dobbiamo fare qui al buio?...
— Rassegnarsi e aspettare che il Pesce-cane
ci abbia digeriti tutti e due!...
— Ma io non voglio esser digerito! — urlò
Pinocchio, ricominciando a piangere.
— Neppure io vorrei esser digerito! —
soggiunse il Tonno — ma io sono abbastanza filosofo e mi consolo pensando che,
quando si nasce Tonni, c’è piú dignità a morir sott’acqua che sott’olio!...
— Scioccherie! — gridò Pinocchio.
— La mia è un’opinione — replicò il Tonno —
e le opinioni, come dicono i Tonni politici, vanno rispettate!
— Insomma... io voglio andarmene di qui...
io voglio fuggire...
— Fuggi, se ti riesce!...
— È molto grosso questo Pesce-cane che ci ha
inghiottiti? — domandò il burattino.
— Figurati che il suo corpo è piú lungo di
un chilometro senza contare la coda. —
Nel tempo che facevano questa conversazione al
buio, parve a Pinocchio di veder lontan lontano una specie di chiarore.
— Che cosa sarà mai quel lumicino lontano
lontano? — disse Pinocchio.
— Sarà qualche nostro compagno di sventura,
che aspetterà come noi il momento di esser digerito!...
— Voglio andare a trovarlo. Non potrebbe
darsi il caso che fosse qualche vecchio pesce capace d’insegnarmi la strada per
fuggire?
— Io te l’auguro di cuore, caro burattino.
— Addio, Tonno.
— Addio, burattino: e buona fortuna.
— Dove ci rivedremo?...
— Chi lo sa?... È meglio non pensarci
neppure! —
XXXV
Pinocchio
ritrova in corpo al Pesce-cane... chi ritrova?
Leggete
questo capitolo e lo saprete.
Pinocchio, appena che ebbe detto addio al suo buon
amico Tonno, si mosse brancolando in mezzo a quel bujo, e camminando a tastoni
dentro il corpo del Pesce-cane, si avviò un passo dietro l’altro verso quel
piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano.
E nel camminare sentí che i suoi piedi sguazzavano
in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona, e quell’acqua sapeva di un
odore cosí acuto di pesce fritto, che gli pareva d’essere a mezza quaresima.
E piú andava avanti, e piú il chiarore si faceva
rilucente e distinto: finché, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu
arrivato... che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola
tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di
cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco, come se fosse
di neve o di panna montata, il quale se ne stava lí biascicando alcuni
pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava, gli
scappavano perfino di bocca.
A quella vista il povero Pinocchio ebbe
un’allegrezza cosí grande e cosí inaspettata, che ci mancò un ette non cadesse
in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e
invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e
sconclusionate. Finalmente gli riuscí di cacciar fuori un grido di gioja, e
spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare:
— Oh! babbino mio! finalmente vi ho
ritrovato! Ora poi non vi lascio piú, mai piú, mai piú!
— Dunque gli occhi mi dicono il vero? —
replicò il vecchietto stropicciandosi gli occhi — Dunque tu se’ proprio il mi’
caro Pinocchio?
— Sí, sí, sono io, proprio io! E voi mi
avete digià perdonato, non è vero? Oh! babbino mio, come siete buono!... e
pensare che io, invece... Oh! ma se sapeste quante disgrazie mi son piovute sul
capo e quante cose mi sono andate a traverso! Figuratevi che il giorno che voi,
povero babbino, col vendere la vostra casacca, mi compraste l’Abbecedario per
andare a scuola, io scappai a vedere i burattini, e il burattinajo mi voleva
mettere sul fuoco perché gli cocessi il montone arrosto, che fu quello poi che
mi dètte cinque monete d’oro, perché le portassi a voi, ma io trovai la Volpe e
il Gatto, che mi condussero all’Osteria del Gambero Rosso, dove mangiarono come
lupi, e partito solo di notte incontrai gli assassini che si messero a corrermi
dietro, e io via, e loro dietro, e io via, e loro sempre dietro, e io via,
finché m’impiccarono a un ramo della Quercia Grande, dovecché la bella Bambina
dai capelli turchini mi mandò a prendere con una carrozzina, e i medici, quando
m’ebbero visitato, dissero subito: — «Se non è morto, è segno che è sempre
vivo» — e allora mi scappò detta una bugia, e il naso cominciò a crescermi e
non mi passava piú dalla porta di camera, motivo per cui andai con la Volpe e
col Gatto a sotterrare le quattro monete d’oro, che una l’avevo spesa
all’Osteria, e il pappagallo si messe a ridere, e viceversa di duemila monete
non trovai piú nulla, la quale il Giudice quando seppe che ero stato derubato,
mi fece subito mettere in prigione, per dare una soddisfazione ai ladri, di
dove, col venir via, vidi un bel grappolo d’uva in un campo, che rimasi preso
alla tagliola e il contadino di santa ragione mi messe il collare da cane
perché facessi la guardia al pollajo, che riconobbe la mia innocenza e mi
lasciò andare, e il Serpente, colla coda che gli fumava, cominciò a ridere e
gli si strappò una vena sul petto, e cosí ritornai alla casa della bella
Bambina, che era morta, e il Colombo vedendo che piangevo mi disse: — «Ho visto
il tu’ babbo che si fabbricava una barchettina per venirti a cercare» — e io
gli dissi — «Oh! se avessi l’ali anch’io» — e lui mi disse — «Vuoi venire dal
tuo babbo?» — e io gli dissi — «Magari! ma chi mi ci porta?» — e lui mi disse —
«Ti ci porto io» — e io gli dissi — «Come?» — e lui mi disse — «Montami sulla
groppa» — e cosí abbiamo volato tutta la notte, poi la mattina tutti i
pescatori che guardavano verso il mare mi dissero — «C’è un pover’omo in una
barchetta che sta per affogare» — e io da lontano vi riconobbi subito, perché
me lo diceva il core, e vi feci segno di tornare alla spiaggia...
— Ti riconobbi anch’io — disse Geppetto — e
sarei volentieri tornato alla spiaggia: ma come fare? Il mare era grosso e un
cavallone m’arrovesciò la barchetta. Allora un orribile Pesce-cane che era lí
vicino, appena che m’ebbe visto nell’acqua corse subito verso di me, e tirata
fuori la lingua, mi prese pari pari, e m’inghiottí come un tortellino di
Bologna.
— E quant’è che siete chiuso qui dentro? —
domandò Pinocchio.
— Da quel giorno in poi, saranno oramai due
anni: due anni, Pinocchio mio, che mi son parsi due secoli!
— E come avete fatto a campare? E dove avete
trovata la candela? E i fiammiferi per accenderla, chi ve li ha dati?
— Ora ti racconterò tutto. Devi dunque
sapere che quella medesima burrasca, che rovesciò la mia barchetta, fece anche
affondare un bastimento mercantile. I marinaj si salvarono tutti, ma il
bastimento calò a fondo e il solito Pesce-cane che quel giorno aveva un
appetito eccellente, dopo avere inghiottito me, inghiottí anche il
bastimento...
— Come? Lo inghiottí tutto in un boccone?...
— domandò Pinocchio maravigliato.
— Tutto in un boccone: e risputò solamente
l’albero maestro, perché gli era rimasto fra i denti come una lisca. Per mia
gran fortuna, quel bastimento era carico non solo di carne conservata in
cassette di stagno, ma di biscotto, ossia di pane abbrostolito, di bottiglie di
vino, d’uva secca, di cacio, di caffè, di zucchero, di candele steariche e di
scatole di fiammiferi di cera. Con tutta questa grazia di Dio ho potuto campare
due anni: ma oggi sono agli ultimi sgoccioli: oggi nella dispensa non c’è piú
nulla, e questa candela, che vedi accesa, è l’ultima candela che mi sia
rimasta...
— E dopo?...
— E dopo, caro mio, rimarremo tutt’e due al
bujo.
— Allora, babbino mio — disse Pinocchio —
non c’è tempo da perdere. Bisogna pensar subito a fuggire...
— A fuggire?... e come?
— Scappando dalla bocca del Pesce-cane e
gettandosi a nuoto in mare.
— Tu parli bene: ma io, caro Pinocchio, non
so nuotare.
— E che importa?... Voi mi monterete a
cavalluccio sulle spalle e io, che sono un buon nuotatore, vi porterò sano e
salvo fino alla spiaggia.
— Illusioni, ragazzo mio! — replicò
Geppetto, scotendo il capo e sorridendo malinconicamente. — Ti par egli possibile
che un burattino, alto appena un metro, come sei tu, possa aver tanta forza da
portarmi a nuoto sulle spalle?
— Provatevi e vedrete! A ogni modo se sarà
scritto in cielo che dobbiamo morire, avremo almeno la gran consolazione di
morire abbracciati insieme. —
E senza dir altro, Pinocchio prese in mano la
candela, e andando avanti per far lume, disse al suo babbo:
— Venite dietro a me, e non abbiate
paura. —
E cosí camminarono un bel pezzo, e traversarono tutto
il corpo e tutto lo stomaco del Pesce-cane. Ma giunti al punto dove cominciava
la spaziosa gola del mostro, pensarono bene di fermarsi per dare un’occhiata e
cogliere il momento opportuno alla fuga.
Ora bisogna sapere che il Pesce-cane, essendo
molto vecchio e soffrendo d’asma e di palpitazione di cuore, era costretto a
dormire a bocca aperta: per cui Pinocchio, affacciandosi al principio della
gola e guardando in su, poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca
spalancata un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna.
— Questo è il vero momento di scappare —
bisbigliò allora voltandosi al suo babbo. — Il Pesce-cane dorme come un ghiro:
il mare è tranquillo e ci si vede come di giorno. Venite dunque, babbino,
dietro a me, e fra poco saremo salvi. —
Detto fatto, salirono su per la gola del mostro
marino, e arrivati in quell’immensa bocca, cominciarono a camminare in punta di
piedi sulla lingua; una lingua cosí larga e cosí lunga, che pareva il
viottolone d’un giardino. E già stavano lí lí per fare il gran salto e per
gettarsi a nuoto nel mare, quando, sul piú bello, il Pesce-cane starnutí, e
nello starnutire, dètte uno scossone cosí violento, che Pinocchio e Geppetto si
trovarono rimbalzati all’indietro e scaraventati novamente in fondo allo
stomaco del mostro.
Nel grand’urto della caduta la candela si spense,
e padre e figliuolo rimasero al bujo.
— E ora?... — domandò Pinocchio facendosi
serio.
— Ora, ragazzo mio, siamo bell’e perduti.
— Perché perduti? Datemi la mano, babbino, e
badate di non sdrucciolare!...
— Dove mi conduci?
— Dobbiamo ritentare la fuga. Venite con me
e non abbiate paura. —
Ciò detto, Pinocchio prese il suo babbo per la
mano: e camminando sempre in punta di piedi, risalirono insieme su per la gola
del mostro: poi traversarono tutta la lingua e scavalcarono i tre filari di
denti. Prima però di fare il gran salto, il burattino disse al suo babbo:
— Montatemi a cavalluccio sulle spalle e
abbracciatemi forte forte. Al resto ci penso io. —
Appena Geppetto si fu accomodato per bene sulle
spalle del figliolo, il bravo Pinocchio, sicuro del fatto suo, si gettò
nell’acqua e cominciò a nuotare. Il mare era tranquillo come un olio: la luna
splendeva in tutto il suo chiarore e il Pesce-cane seguitava a dormire di un
sonno cosí profondo, che non l’avrebbe svegliato nemmeno una cannonata.
XXXVI
Finalmente
Pinocchio cessa d’essere un burattino e diventa un ragazzo.
Mentre Pinocchio nuotava alla svelta per
raggiungere la spiaggia, si accòrse che il suo babbo, il quale gli stava a
cavalluccio sulle spalle e aveva le gambe mezze nell’acqua, tremava fitto
fitto, come se al pover’uomo gli battesse la febbre terzana.
Tremava di freddo o di paura? Chi lo sa?... Forse
un po’ dell’uno e un po’ dell’altra. Ma Pinocchio, credendo che quel tremito fosse
di paura, gli disse per confortarlo:
— Coraggio, babbo! Fra pochi minuti
arriveremo a terra e saremo salvi.
— Ma dov’è questa spiaggia benedetta?
— domandò il vecchietto, diventando sempre piú inquieto, e appuntando gli
occhi, come fanno i sarti quando infilano l’ago. — Eccomi qui, che guardo
da tutte le parti e non vedo altro che cielo e mare.
— Ma io vedo anche la spiaggia — disse
il burattino. — Per vostra regola io sono come i gatti: ci vedo meglio di
notte che di giorno. —
Il povero Pinocchio faceva finta di esser di buon
umore: ma invece... invece cominciava a scoraggirsi: le forze gli scemavano, il
suo respiro diventava grosso e affannoso... insomma non ne poteva piú, e la
spiaggia era sempre lontana.
Nuotò finché ebbe fiato: poi si voltò col capo
verso Geppetto, e disse con parole interrotte:
— Babbo mio... ajutatevi... perché io
muojo!... —
E padre e figliuolo erano oramai sul punto di
affogare, quando udirono una voce di chitarra scordata che disse:
— Chi è che muore?
— Sono io e il mio povero babbo!
— Questa voce la riconosco! Tu sei
Pinocchio!...
— Preciso: e tu?
— Io sono il Tonno, il tuo compagno di
prigionia in corpo al Pesce-cane.
— E come hai fatto a scappare?
— Ho imitato il tuo esempio. Tu sei quello che
mi hai insegnato la strada, e dopo te, sono fuggito anch’io.
— Tonno mio, tu capiti proprio a tempo! Ti
prego per l’amore che porti ai Tonnini tuoi figliuoli: ajutaci, o siamo
perduti.
— Volentieri e con tutto il cuore.
Attaccatevi tutti e due alla mia coda, e lasciatevi guidare. In quattro minuti
vi condurrò alla riva. —
Geppetto e Pinocchio, come potete immaginarvelo,
accettarono subito l’invito: ma invece di attaccarsi alla coda, giudicarono piú
comodo di mettersi addirittura a sedere sulla groppa del Tonno.
— Siamo troppo pesi? — gli domandò
Pinocchio.
— Pesi? Neanche per ombra; mi par di avere
addosso due gusci di conchi- glia
— rispose il Tonno, il quale era di una corporatura cosí grossa e robusta,
da parere un vitello di due anni.
Giunti alla riva, Pinocchio saltò a terra il
primo, per ajutare il suo babbo a fare altrettanto: poi si voltò al Tonno, e
con voce commossa gli disse:
— Amico mio, tu hai salvato il mio babbo!
Dunque non ho parole per ringraziarti abbastanza! Permetti almeno che ti dia un
bacio, in segno di riconoscenza eterna!... —
Il Tonno cacciò il muso fuori dell’acqua, e
Pinocchio, piegandosi coi ginocchi a terra, gli posò un affettuosissimo bacio
sulla bocca. A questo tratto di spontanea e vivissima tenerezza, il povero
Tonno, che non c’era avvezzo, si sentí talmente commosso, che vergognandosi a
farsi veder piangere come un bambino, ricacciò il capo sott’acqua e sparí.
Intanto s’era fatto giorno.
Allora Pinocchio, offrendo il suo braccio a
Geppetto, che aveva appena il fiato di reggersi in piedi, gli disse:
— Appoggiatevi pure al mio braccio, caro
babbino, e andiamo. Cammineremo pian pianino come le formicole, e quando saremo
stanchi, ci riposeremo lungo la via.
— E dove dobbiamo andare? — domandò
Geppetto.
— In cerca di una casa o d’una capanna, dove
ci diano per carità un boccon di pane e un po’ di paglia che ci serva da
letto. —
Non avevano ancora fatti cento passi, che videro
seduti sul ciglione della strada due brutti ceffi, i quali stavano lí in atto
di chiedere l’elemosina.
Erano il Gatto e la Volpe: ma non si
riconoscevano piú da quelli di una volta. Figuratevi che il Gatto, a furia di
fingersi cieco, aveva finito coll’accecare davvero: e la Volpe invecchiata,
intignata e tutta perduta da una parte, non aveva piú nemmeno la coda. Cosí è.
Quella trista ladracchiola, caduta nella piú squallida miseria, si trovò
costretta un bel giorno a vendere perfino la sua bellissima coda a un merciajo
ambulante, che la comprò per farsene uno scacciamosche.
— O Pinocchio — gridò la Volpe con voce
di piagnisteo — fai un po’ di carità a questi due poveri infermi.
— Infermi! — ripeté il Gatto.
— Addio, mascherine! — rispose il
burattino. — Mi avete ingannato una volta, e ora non mi ripigliate piú.
— Credilo, Pinocchio, che oggi siamo poveri
e disgraziati davvero!
— Davvero! — ripeté il Gatto.
— Se siete poveri, ve lo meritate.
Ricordatevi del proverbio che dice: «I quattrini rubati non fanno mai frutto».
Addio, mascherine!
— Abbi compassione di noi!...
— Di noi!
— Addio, mascherine! Ricordatevi del
proverbio che dice: «La farina del diavolo va tutta in crusca».
— Non ci abbandonare!
— ...are! — ripeté il Gatto.
— Addio, mascherine! Ricordatevi del
proverbio che dice: «Chi ruba il mantello al suo prossimo, per il solito muore
senza camicia». —
E cosí dicendo, Pinocchio e Geppetto seguitarono
tranquillamente per la loro strada: finché, fatti altri cento passi, videro in
fondo a una viottola, in mezzo ai campi, una bella capanna tutta di paglia, e
col tetto coperto d’embrici e di mattoni.
— Quella capanna dev’essere abitata da
qualcuno — disse Pinocchio. —Andiamo là, e bussiamo. —
Difatti andarono, e bussarono alla porta.
— Chi è? — disse una vocina di dentro.
— Siamo un povero babbo e un povero
figliuolo, senza pane e senza tetto —rispose il burattino.
— Girate la chiave, e la porta si aprirà
— disse la solita vocina.
Pinocchio girò la chiave, e la porta si aprí.
Appena entrati dentro, guardarono di qua, guardarono di là, e non videro
nessuno.
— O il padrone della capanna dov’è?
— disse Pinocchio maravigliato.
— Eccomi quassú! —
Babbo e figliuolo si voltarono subito verso il
soffitto, e videro sopra un travicello il Grillo-parlante.
— Oh! mio caro Grillino — disse
Pinocchio salutandolo garbatamente.
— Ora mi chiami il «Tuo caro Grillino», non
è vero? Ma ti rammenti di quando, per cacciarmi di casa tua, mi tirasti un
manico di martello?...
— Hai ragione, Grillino! Scaccia anche me...
tira anche a me un manico di martello: ma abbi pietà del mio povero babbo...
— Io avrò pietà del babbo e anche del figliuolo:
ma ho voluto rammentarti il brutto garbo ricevuto, per insegnarti che in questo
mondo, quando si può, bisogna mostrarsi cortesi con tutti, se vogliamo esser
ricambiati con pari cortesia nei giorni del bisogno.
— Hai ragione, Grillino, hai ragione da
vendere e io terrò a mente la lezione che mi hai data. Ma mi dici come hai
fatto a comprarti questa bella capanna?
— Questa capanna mi è stata regalata jeri da
una graziosa capra, che aveva la lana d’un bellissimo colore turchino.
— E la capra dov’è andata? — domandò
Pinocchio, con vivissima curiosità.
— Non lo so.
— E quando ritornerà?...
— Non ritornerà mai. Ieri è partita tutta
afflitta, e, belando, pareva che dicesse: — «Povero Pinocchio... oramai
non lo rivedrò piú... il Pesce-cane a quest’ora l’avrà bell’e divorato!...»
— Ha detto proprio cosí?... Dunque era
lei!... era lei!... era la mia cara Fati-
na!... — cominciò a urlare Pinocchio, singhiozzando e piangendo
dirottamente.
Quand’ebbe pianto ben bene, si rasciugò gli occhi
e, preparato un buon lettino di paglia, vi distese sopra il vecchio Geppetto.
Poi domandò al Grillo-parlante:
— Dimmi, Grillino: dove potrei trovare un
bicchiere di latte per il mio povero babbo?
— Tre campi distante di qui c’è l’ortolano
Giangio, che tiene le mucche. Va’ da lui e troverai il latte che cerchi. —
Pinocchio andò di corsa a casa dell’ortolano
Giangio: ma l’ortolano gli disse:
— Quanto ne vuoi del latte?
— Ne voglio un bicchiere pieno.
— Un bicchiere di latte costa un soldo.
Comincia intanto a darmi un soldo.
— Non ho nemmeno un centesimo — rispose
Pinocchio tutto mortificato e dolente.
— Male, burattino mio — replicò
l’ortolano. — Se tu non hai nemmeno un centesimo, io non ho nemmeno un
dito di latte.
— Pazienza! — disse Pinocchio, e fece
l’atto di andarsene.
— Aspetta un po’ — disse Giangio.
— Fra te e me ci possiamo accomodare. Vuoi adattarti a girare il bindolo?
— Che cos’è il bindolo?
— Gli è quell’ordigno di legno, che serve a
tirar su l’acqua dalla cisterna per annaffiare gli ortaggi.
— Mi proverò...
— Dunque, tirami su cento secchie d’acqua, e
io ti regalerò in compenso un bicchiere di latte.
— Sta bene. —
Giangio condusse il burattino nell’orto e
gl’insegnò la maniera di girare il bindolo. Pinocchio si pose subito al lavoro;
ma prima di aver tirato su le cento secchie d’acqua, era tutto grondante di
sudore dalla testa ai piedi. Una fatica a quel modo non l’aveva durata mai.
— Finora questa fatica di girare il bindolo
— disse l’ortolano — l’ho fatta fare al mio ciuchino: ma oggi quel
povero animale è in fin di vita.
— Mi menate a vederlo? — disse
Pinocchio.
— Volentieri. —
Appena che Pinocchio fu entrato nella stalla vide
un bel ciuchino disteso sulla paglia, rifinito dalla fame e dal troppo lavoro.
Quando l’ebbe guardato fisso fisso, disse dentro di sé, turbandosi:
— Eppure quel ciuchino lo conosco! Non mi è
fisonomia nuova! —
E chinatosi fino a lui, gli domandò in dialetto
asinino:
— Chi sei? —
A questa domanda, il ciuchino aprí gli occhi
moribondi, e rispose balbettando nel medesimo dialetto:
— Sono Lu...ci...gno...lo... —
E dopo richiuse gli occhi e spirò.
— Oh! povero Lucignolo! — disse
Pinocchio a mezza voce: e presa una manciata di paglia, si rasciugò una lacrima
che gli colava giú per il viso.
— Ti commuovi tanto per un asino che non ti
costa nulla? — disse l’ortolano. — Che cosa dovrei far io che lo
comprai a quattrini contanti?
— Vi dirò... era un mio amico!...
— Tuo amico?
— Un mio compagno di scuola!...
— Come?! — urlò Giangio dando in una
gran risata. — Come?! avevi dei somari per compagni di scuola?...
Figuriamoci i begli studi che devi aver fatto!... —
Il burattino, sentendosi mortificato da quelle
parole, non rispose: ma prese il suo bicchiere di latte quasi caldo, e se ne
tornò alla capanna.
E da quel giorno in poi, continuò piú di cinque mesi
a levarsi ogni mattina, prima dell’alba, per andare a girare il bindolo, e
guadagnare cosí quel bicchiere di latte, che faceva tanto bene alla salute
cagionosa del suo babbo. Né si contentò di questo: perché a tempo avanzato,
imparò a fabbricare anche i canestri e i panieri di giunco: e coi quattrini che
ne ricavava, provvedeva con moltissimo giudizio a tutte le spese giornaliere.
Fra le altre cose, costruí da sé stesso un elegante carrettino per condurre a
spasso il suo babbo nelle belle giornate, e per fargli prendere una boccata
d’aria.
Nelle veglie poi della sera, si esercitava a
leggere e a scrivere. Aveva comprato nel vicino paese per pochi centesimi un
grosso libro, al quale mancavano il frontespizio e l’indice, e con quello
faceva la sua lettura. Quanto allo scrivere, si serviva di un fuscello
temperato a uso penna; e non avendo né calamajo né inchiostro, lo intingeva in
una boccettina ripiena di sugo di more e di ciliege.
Fatto sta, che con la sua buona volontà
d’ingegnarsi, di lavorare e di tirarsi avanti, non solo era riuscito a
mantenere quasi agiatamente il suo genitore sempre malaticcio, ma per di piú
aveva potuto mettere da parte anche quaranta soldi per comprarsi un vestitino
nuovo.
Una mattina disse a suo padre:
— Vado qui al mercato vicino, a comprarmi
una giacchettina, un berrettino e un pajo di scarpe. Quando tornerò a casa
— soggiunse ridendo — sarò vestito cosí bene, che mi scambierete per
un gran signore. —
E uscito di casa, cominciò a correre tutto
allegro e contento. Quando a un tratto sentí chiamarsi per nome: e voltandosi,
vide una bella lumaca che sbucava fuori dalla siepe.
— Non mi riconosci? — disse la Lumaca.
— Mi pare e non mi pare...
— Non ti ricordi di quella Lumaca, che stava
per cameriera con la Fata dai capelli turchini? non ti rammenti di quella
volta, quando scesi a farti lume e che tu rimanesti con un piede confitto
nell’uscio di casa?
— Mi rammento di tutto — gridò
Pinocchio. — Rispondimi subito, Lumachina bella: dove hai lasciato la mia
buona Fata? che fa? mi ha perdonato? si ricorda sempre di me? mi vuol sempre
bene? è molto lontana di qui? potrei andare a trovarla? —
A tutte queste domande, fatte precipitosamente e
senza ripigliar fiato, la Lumaca rispose con la sua solita flemma.
— Pinocchio mio! La povera Fata giace in un
fondo di letto allo spedale!...
— Allo spedale?...
— Pur troppo. Colpita da mille disgrazie, si
è gravemente ammalata, e non ha piú da comprarsi un boccon di pane.
— Davvero?... Oh! che gran dolore che mi hai
dato! Oh! povera Fatina! povera Fatina! povera Fatina!... Se avessi un milione,
correrei a portarglielo... Ma io non ho che quaranta soldi... eccoli qui:
andavo giusto a comprarmi un vestito nuovo. Prendili, Lumaca, e va’ a portarli
subito alla mia buona Fata.
— E il tuo vestito nuovo?...
— Che m’importa del vestito nuovo? Venderei
anche questi cenci che ho addosso, per poterla ajutare! Va’, Lumaca, e
spicciati: e fra due giorni ritorna qui, ché spero di poterti dare qualche
altro soldo. Finora ho lavorato per mantenere il mio babbo: da oggi in là,
lavorerò cinque ore di piú per mantenere anche la mia buona mamma. Addio,
Lumaca, e fra due giorni ti aspetto. —
La Lumaca, contro il suo costume, cominciò a
correre come una lucertola nei grandi solleoni d’agosto.
Quando Pinocchio tornò a casa, il suo babbo gli
domandò:
— E il vestito nuovo?
— Non m’è stato possibile di trovarne uno
che mi tornasse bene. Pazienza!... Lo comprerò un’altra volta. —
Quella sera Pinocchio, invece di vegliare fino
alle dieci, vegliò fino alla mezzanotte sonata: e invece di far otto canestri
di giunco, ne fece sedici.
Poi andò a letto e si addormentò. E nel dormire,
gli parve di vedere in sogno la Fata, tutta bella e sorridente, la quale, dopo
avergli dato un bacio, gli disse cosí:
— «Bravo Pinocchio! In grazia del tuo buon cuore,
io ti perdono tutte le monellerie che hai fatto fino a oggi. I ragazzi che
assistono amorosamente i propri genitori nelle loro miserie e nelle loro
infermità, meritano sempre gran lode e grande affetto, anche se non possono
esser citati come modelli d’ubbidienza e di buona condotta. Metti giudizio per
l’avvenire, e sarai felice». —
A questo punto il sogno finí, e Pinocchio si
svegliò con tanto d’occhi spalancati.
Ora immaginatevi voi quale fu la sua meraviglia
quando, svegliandosi, si accòrse che non era piú un burattino di legno: ma che
era diventato, invece, un ragazzo come tutti gli altri. Dètte un’occhiata
all’intorno e invece delle solite pareti di paglia della capanna, vide una
bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante.
Saltando giú dal letto, trovò preparato un bel vestiario nuovo, un berretto
nuovo e un pajo di stivaletti di pelle, che gli tornavano una vera pittura.
Appena si fu vestito, gli venne fatto
naturalmente di mettere le mani nelle tasche e tirò fuori un piccolo
portamonete d’avorio, sul quale erano scritte queste parole: «La Fata dai
capelli turchini restituisce al suo caro Pinocchio i quaranta soldi e lo
ringrazia tanto del suo buon cuore». Aperto il portafoglio, invece dei soldi di rame, vi luccicavano quaranta
zecchini d’oro, tutti nuovi di zecca.
Dopo andò a guardarsi allo specchio, e gli parve
d’essere un altro. Non vide piú riflessa la solita immagine della marionetta di
legno, ma vide l’immagine vispa e intelligente di un bel fanciullo coi capelli
castagni, cogli occhi celesti e con un’aria allegra e festosa come una pasqua
di rose.
In mezzo a tutte queste meraviglie, che si
succedevano le une alle altre, Pinocchio non sapeva piú nemmeno lui se era
desto davvero o se sognava sempre a occhi aperti.
— E il mio babbo dov’è? — gridò tutt’a
un tratto: ed entrato nella stanza accanto trovò il vecchio Geppetto sano,
arzillo e di buon umore, come una volta, il quale, avendo ripreso subito la sua
professione d’intagliatore, stava appunto disegnando una bellissima cornice
ricca di fogliami, di fiori e di testine di diversi animali.
— Levatemi una curiosità, babbino: ma come
si spiega tutto questo cambiamento improvviso? — gli domandò Pinocchio
saltandogli al collo e coprendolo di baci.
— Questo improvviso cambiamento in casa
nostra è tutto merito tuo — disse
Geppetto.
— Perché merito mio?...
— Perché quando i ragazzi, di cattivi
diventano buoni, hanno la virtú di far prendere un aspetto nuovo e sorridente
anche all’interno delle loro famiglie.
— E il vecchio Pinocchio di legno dove si
sarà nascosto?
— Eccolo là — rispose Geppetto: e gli
accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato sur una
parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a
mezzo, da parere un miracolo se stava ritto.
Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l’ebbe
guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza:
— Com’ero buffo, quand’ero un burattino! e
come ora son contento di esser diventato un ragazzino perbene!... —