Nessuno sapeva quanto io fossi felice, allora.
E forse proprio bene non lo sapevo nemmeno io, benché lo sospettassi un
po’.
Cominciava così:
- Ma questa bambina ha la febbre! - diceva la mamma, baciandomi
leggermente sul collo. Zippo mi guardava molto eccitata, con i suoi occhioni
spalancati, pieni di enorme compassione per me. Subito subito entravo nel
lettino caldo che odorava tutto di spigo. La mamma andava e veniva per la
camera. Portava un bicchiere, socchiudeva le imposte. Mi piaceva molto vederla
andare e venire per me. Di tanto in tanto mi accarezzava:
- Che occhini lustri! Che gotine che scottano!
Io aprivo e chiudevo gli occhi, per vedere apparire e sparire la mamma,
in mezzo a una gran luce rossa. Zippo faceva capolino dalla porta, ma io
fingevo di non vederla.
La mamma voleva misurarmi la febbre. Lei stessa mi metteva sotto
l’ascella l’asticciola gelida. Io sentivo un piccolo brivido. Nella penombra
della stanza c’era un gran silenzio. La mamma con il suo bell’orologio con i
tre brillantini, sedeva vicina vicina al mio letto.
Stava a veder passare i minuti. Ne dovevano passare dieci.
Io mi immaginavo i minuti come dieci soldatini che attraversavano la
camera in punta di piedi, con un dito sul naso.
Mentre passavano i minuti, la mamma mi permetteva di guardare il suo
bell’orologio con i tre brillantini. Me lo faceva vedere lei, però. Perché io
dovevo stare ferma ferma. Lei credeva proprio
che io stessi ferma ferma, ma invece in fondo al letto, sotto sotto le
coperte, io facevo fare le riverenze al ditone, che era il babbo, con tutti i
figliolini, fino al mignolino. I minuti ci mettevano tanto a passare! I primi
cinque passavano un po’ più in fretta, ma gli altri non passavano proprio mai!
Io non sapevo bene se volevo la febbre o no. A momenti decidevo di non
averla e allora facevo fare tante riverenze al ditone e ai figliolini e osavo
perfino, a volte, sfilare per un pochino l’asticciola di sotto l’ascella. A
momenti invece, mi seduceva enormemente l’idea di avere una vera febbre. Un
febbrone. Chissà, forse a quarantadue...
La mamma diceva: - é l’ora, Mussi.
Guardava il termometro contro il filo di luce della finestra.
Trentasette e otto.
Col trentasette e otto, il termometro perdeva quasi ogni fascino per
me. Per molti giorni ero piena di indifferenza, quando me lo mettevano. Una
volta la febbre era salita perfino a quaranta e mezzo. Ma anche allora non mi
importava più tanto che arrivasse a quarantadue, sebbene confusamente provassi
una specie di orgoglio, nel vedere il babbo che scoteva la testa.
Avevo solo tanto sonno, tanto sonno. Mi pareva di dormire per giorni e
giorni. E solo in sogno vedevo ancora la mamma andare e venire per
la camera e Zippo che faceva capolino dalla porta col suo visetto di
mela rossa.
Succedeva sempre così. Dormivo giorni e giorni. Finché una mattina mi pareva
di svegliarmi.
Su un’imposta socchiusa un raggio di sole disegnava un curioso zig-zag.
Nella camera c’era una tenue luce bianca. Allora vedevo la mamma non più in
sogno, ma davvero. Si era chinata, baciandomi leggermente sul collo.
- Mi sembra sfebbratina, stamani - diceva e mi dava ancora tanti
piccoli baci sul collo.
Era come se mi volassero sul collo tanti petali di fiori bianchi.
Poi la mamma spalancava la finestra. Ma prima, ridendo, mi copriva fin
sopra al nasino, perché non prendessi freddo.
Forse mi ammalavo sempre di marzo. Perché guardando fuori dalla
finestra spalancata, la mamma diceva, quella mattina:
- Oh Mussi, giù in giardino il mandorlo è tutto fiorito!
Allora io volevo guarire presto, per vedere il mandorlo fiorito.
Ma avevo di nuovo un po’ di sonno. Tutto a un tratto avevo di nuovo
tanto sonno. Chiudevo un pochino gli occhi e tanti mandorli fioriti entravano
nella camera. Su tutti i rami, i fiori erano fitti fitti come stelle. Poi,
lentamente, i fiori cominciavano a volare giù dai rami. Volavano, volavano
sempre più fitti.
Io mi addormentavo fra una nevicata leggera di petali bianchi, come i piccoli baci della mamma.
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La briciola aveva un
buon sapore amarognolo.
I mobili e tutti gli oggetti della stanza
avevano aspetti strani, che m’incuriosivano
straordinariamente. Era come se li vedessi per la prima volta. L’armadio aveva una faccia tanto buffa!
Pareva un signore distratto, con quei nodi del legno, che gli facevano due
occhi lontani lontani!
Invece il cassettone con le maniglie, era la vecchia maligna con le
lingue fuori... Mi divertivo anche a fare le boccacce a un drago giallo con il
naso schiacciato, che stava sul soffitto, in mezzo a stranissimi uccelli col
pennacchio.
A volte il babbo e la mamma si affacciavano alla porta. Con molta
malizia, allora, io chiudevo immediatamente gli occhi fingendo di dormire. Li
sentivo avvicinarsi in punta di piedi.
- Che ciglia lunghe! - diceva sottovoce la mamma.
Io ascoltavo deliziata, con gli occhi sempre chiusi. Ma appena i passi
si allontanavano, mi cacciavo tutta sotto le coperte, tuffando sotto anche la
testa, con un fremito di pazzesca allegria dentro di me.
Che momenti eran quelli in cui aspettavo la tazza del tè col biscotto!
Finalmente sentivo tintinnare sul vassoio la grande teiera e il piccolo bricco
del latte. Io stendevo la salvietta sul guanciale, sminuzzando il biscotto in
tanti pezzettini, e cominciavo l’affascinante giuoco della pesca.
Il guanciale oscillava sulle mie ginocchia e io fingevo che fosse una grande zattera, galleggiante sul mare. Ma poi cominciavo a
pescare, non sull’immenso oceano bianco del lenzuolo, ma nel breve stagno della mia tazza da tè. Io stessa con i pezzettini di biscotto, popolavo lo stagno di pesci e pesciolini; poi calavo il retino. Il cucchiaino s’immergeva e tornava su come un vero retino, quasi sempre ricco di preda. Che emozione straordinaria, quando nel retino appariva un pescione! Ad arte, avevo gettato nello stagno due o tre pezzi di biscotto che erano proprio enormi. Uno dopo l’altro pescavo e divoravo tutti i pescioni, i pesci e i pesciolini.
All’ultimo poi bevevo tutto lo stagno.
Un altro giuoco meraviglioso era quello del castello assediato.
Si può fare anche con un solo biscotto, ma per lo più io lo riserbavo
agli ultimi giorni della convalescenza, quando sulla salvietta c’era un’intera
colazioncina, perché in questo caso riesce molto più eccitante.
Fingevo di essere in un castello assediato. Il mio castello era ben
ricco di provviste. C’era il granaio, la dispensa e la cantina.
La dispensa era riccamente rappresentata dalla alina del pollo e dalle
prugne cotte. La cantina con le botti, era chiarissimo che si trovava nel
bicchiere. Il
castello era assediato. Dalle mura si combatteva con estremo valore, ma i
nemici perfidi ci volevano prendere per fame. Io
sottraevo dal granaio, con incredibile parsimonia, una briciola di grissino
o una punta di cucchiaio di minestrina… Era
la razione per un combattente. Naturalmente
sostenevo io sola la parte di tutti i combattenti e a me spettavano di
diritto, una dopo l’altra, le minuscole razioni, fatte di briciole e di
centellini. Gustavo con voluttà quell’ombra di sapore, che diventava
delicato come un profumo. A mano a mano, con un grissino, sfamavo migliaia
di combattenti. Io
trasformavo indifferentemente in granaio la minestrina o il grissino.
Il mio entusiasmo era al colmo. Nell’eccitazione distribuivo a tutti
una stilla di acqua e vino.
Quando nessuno se l’aspettava proclamavo la vittoria.
Avevamo avuto una splendida vittoria.
Allora vuotavo a precipizio tutto, il granaio, la dispensa e la
cantina.
Negli ultimi giorni, quando ero quasi guarita, Zippo faceva capolino
dalla porta col suo visetto di mela rossa. Aveva il permesso di entrare a farmi
compagnia. Io la stavo a sentire mentre mi raccontava della scuola. Parlava
continuamente della scuola ed era molto eccitata. Lei sempre, a scuola,
scoppiava dal ridere.
Io non avevo ancora sei anni e non andavo a scuola. Per me la scuola
era una specie di gran cesta, piena zeppa di meline rosse che scoppiavano dal
ridere.
Zippo non si ammalava mai. Aveva avuto solo il morbillo.
Chissà se anche lei faceva qualcuno dei miei meravigliosi giuochi,
quando aveva il morbillo?
Ero tanto curiosa di saperlo, che una volta decisi di parlarle dei
pomodori rossi.
I pomodori rossi erano il mio più affascinante segreto. Veramente non
mi apparivano solo nei giorni della convalescenza, ma certo allora molto più
spesso. Bastava che stringessi gli occhi molto forte.
Vedevo girare una gran ruota e immediatamente mi apparivano dei
pomodori rossi che facevano uno strano balletto. Non sarebbe stato nulla, se la
cosa fosse finita lì. Ma i pomodori rossi erano solo il segnale. Dopo di loro
venivano le pietre preziose.
Vedevo, veramente vedevo, brillare le pietre preziose. Prima solo una
manciata, come faville accese. Ma a poco a poco, a montagne. Pietre rosse come
chicchi di melagrana e verdi come l’acqua, e azzurre e rosa e violette... e
alcune di un giallo chiaro come l’oro. Si mescolavano fiammeggiando e cadevano
giù a cascate. Scintillavano, scintillavano... Diamanti, e rubini, smeraldi e
perle. Perle, perle, perle...
Tutti questi nomi misteriosi, che qualche volta avevo sentito dire
dalla mamma, diventavano come vivi a un tratto, e si mescolavano con le pietre.
Quelle rosse erano i rubini, quelle verdi gli smeraldi. E forse le gialle si
chiamavano topazi?...
Cominciavo a ridere dentro di me a quel nome così buffo.
Restavo a lungo con gli occhi chiusi perché dopo le cascate entravano gli gnomi. Erano piccolissimi e saltellavano per la camera con i loro lunghi cappucci. Anche gli gnomi sparivano, ma io restavo ad occhi chiusi. Fingevo di essere un’altra bambina e sempre ad occhi chiusi, mi raccontavo le novelle.
Nessuno mi aveva mai raccontato quelle strane novelle e io non sapevo
di saperle. Ma mi divertivano meravigliosamente e io stavo lunghe ore a
sentirmele raccontare.
- Prova, Zippo, - le dissi - basta stringere molto forte gli occhi.
Zippo mi ascoltava eccitatissima, con i suoi occhioni spalancati nel
visetto di mela rossa.
- Anche ora tu puoi vederli? - Feci cenno di sì. Il suo visetto era di
fiamma.
- Oh Mussi! forse se mi ammalassi anch’io...